Meiselas – Infranco. La morte ama nascondersi

USA. New York City. 1976. Little Italy. Dee and Lisa on Mott Street.

La fotografia ritrae una ragazza che sta comodamente seduta su una grande sedia di legno, indossa solo una maglia e ha i piedi nudi. È a suo agio, non c’è nulla che la disturba, si percepisce la quiete di un momento intimo. Eppure c’è qualcosa di perturbante, il corpo è trasparente, prossimo alla scomparsa. «La mia foto mi ritrae nel mio piccolo mondo, mentre guardo fuori, tutto e tutti», scrive Susan Meiselas. Dalla superficie di una tavola lievemente ricoperta di cera, affiorano le parole di Agostino, in occulto est radix: fructus videri possunt, radix videri non potest. Sfumate e poco leggibili, ci conducono verso i misteri di un’arcaica sapienza medica in possesso delle donne: maghe, guaritrici, sacerdotesse. È l’opera di Silvia Infranco. Esposte al Festival Fotografia Europea, appartengono a due mostre che si pongono a distanza dalla sentenza eraclitea, la natura ama nascondersi, che fa da titolo alla manifestazione. La prima, Mediations, è la retrospettiva dedicata a Susan Meiselas, l’altra, di Silvia Infranco, si intitola Radici. Isolate dalle altre esposizioni, collocate l’una a Palazzo Magnani e l’altra a Villa Zironi, entrambe si soffermano su un tema oggi considerato tabù: la morte.
L’autoritratto della Meiselas è un manifesto. Il corpo della fotografa, lontano da ogni forma di autocompiacimento, lascia posto a ciò che accade fuori dalla sua stanza. Chi scompare, direbbe Philippe Dubois, si sottrae allo sguardo pietrificante di Medusa. Consapevole che la fotografia eternizza il soggetto e lo congela al di là della propria essenza, la Meiselas trova nel movimento l’antidoto contro la fissità della morte. Le sue immagini pulsano. Sono sguardo, gesto, movimento, tensione, esplosione, riposo. Battono un ritmo.
In Prince Street Girls, Meiselas fotografa un gruppo di bambine con cui aveva stretto amicizia, e per quindici anni, dal 1975 al 1990, le ritrae mentre camminano per strada, si truccano, fumano, parlano fra loro, nessuna è in posa. I corpi flessuosi si muovono con totale disinvoltura, si percepisce un clima di assoluta intimità. Le ragazze stanno le une accanto alle altre, nascono amori, si stringono amicizie. Dalle radio, che ascoltano in spiaggia e nelle loro camere, proviene una musica che dà il ritmo alla sequenza. Come accade in Carnival Strippers, dove la Meiselas, dal 1972 al 1975, fotografa alcune spogliarelliste nelle pause fra uno spettacolo e l’altro. Non le ritrae in veste da pin-up ammiccanti e sorridenti fra piume e paillettes, ma mentre dormono e si riposano. Alcune orgogliosamente si mettono in posa e guardano dritte verso l’obiettivo, poiché comprendono che dietro la fotocamera non c’è qualcuno che vuole possedere i loro corpi. La musica è data dalle loro voci, un intreccio polifonico di racconti, che la Meiselas registra per infondere un soffio di vita al silenzio della fotografia. Lo scoppio del palloncino di chewingum delle ragazze in Prince Street evoca il fragore delle bombe in Nicaragua. Il 17 luglio 1979, giorno prima che il presidente Somoza abbandonasse il Paese, la Meiselas ritrae un rivoluzionario sandinista mentre lancia una molotov contro un reggimento della guardia nazionale. L’uomo si muove sinuosamente, tutti i muscoli sono tesi, un compagno accende la miccia, e pochi istanti dopo, il corpo si inarca per lanciare la bomba, mentre la bocca si contrae in un liberatorio urlo finale. Un ballo, un grido, un inno alla libertà contro la morte. Come il miliziano di Capa, la Meiselas lo fotografa dal basso, ne slancia la figura, dando vita a colui che diventerà l’icona della rivoluzione.

USA. South Carolina. 1974. © Susan Meiselas/Magnum Photos
NICARAGUA. Esteli. September 20, 1978. Fleeing the bombing to seek refuge outside of Esteli. The Nicaraguan National Guard captured the city of Esteli which was held by Sandinesta rebels.

Mentre la molotov della Meiselas brucia come una candela accesa, quelle della Infranco sono spente, la cera che le compone serve a conservare erbe e radici, a preservale dal decadimento.  Nelle stanze di Villa Zironi, si vedono oggetti, sculture e fotografie. Le radici, più che evocare un mondo ctonio regno dell’oscurità e di divinità maligne, sede dell’oltretomba e dell’inferno, sono taumaturgiche. Hanno il potere di guarire le malattie del corpo e quelle dell’anima come la malinconia e la follia. I Remedia contengono ingredienti quali erbe, spezie, fiori, secondo le ricette di Ildegarda di Bingen, The Eaten Word è una scatola di legno con frammenti di carta intrisi di cera che venivano somministrati al malato insieme al farmaco, nelle Precationes, alla cera dei piccoli cilindri, l’artista amalgama diverse erbe officinali.
Ma ogni farmaco, è risaputo, può essere utilizzato come veleno. La cera, che attraversa tutta l’opera della Infranco, non è solo la materia che conserva e protegge dall’azione del tempo. La cera sigilla i pori, impedisce di respirare, blocca il movimento.
Se in Tellus, cubi di cera appesi alle pareti composti da grano, orzo, pigmenti, ossidi, «si riaffaccia l’antico precetto che vedeva il rizotomo, sacerdote dedito alla raccolta delle piante sacre, attuare dei protocolli atti a riparare la ferita inferta alla pianta stessa e alla terra, attraverso offerte di miele, di grano o altri beni», scrive Silvia Bottani, queste grandi masse di cera ricordano le urne che contengono le ceneri dei defunti. Le fotografie dell’Erborario Naturale di S. Spirito, Aconito, Giusquiamo, Belladonna, Papavero, Elleboro, piante allucinogene o anestetiche, stampate su tavole ricoperte di cera, rammentano le lastre di marmo dei loculi nei cimiteri. Lapis è la pietra che chiude il morto nel sepolcro ed è la matita con cui incidere il suo nome o quello della pianta. Queste opere rimandano tuttavia a qualcosa di informe, appartengono all’allegoria dell’invisibile, a ciò che non può avere una forma. Prossime alla scomparsa sono anche le polaroid delle serie Mandragora, la radice antropomorfa, capace di curare e di uccidere, impiegata con il loto e il papavero nella preparazione di unguenti che inducevano stati ipnotici, estatici e di trance; e della serie Moly, la pianta usata come antidoto contro il veleno di Circe, che il dio Ermes dona a Ulisse per non trasformarsi in maiale. Istantanee uniche e irripetibili, prodotte con pellicole autosviluppanti, le polaroid bloccano il soggetto in un’immobilità che dura per sempre, ma nella loro fragilità sono destinate a subire, come ciò che raffigurano, la deperibilità e il decadimento. Così accade alle sculture disposte nelle stanze della villa. Realizzate con una rete metallica molto sottile, e dunque facilmente manipolabile, riproducono forme animali e antropomorfe, la carcassa di una balena, un uomo in posizione fetale, immerso in un sonno eterno. Le maglie esagonali, celle di un alveare in parte colme di cera, delimitano un vuoto, come nella scultura della clessidra, dove la sabbia ha cessato di fluire e di misurare lo scorrere del tempo.
Se le strade e le città di Susan Meiselas sono animate da un incessante movimento, le stanze di Villa Zironi, museo delle cere e camera funeraria, avvolgono il visitatore in un’atmosfera di silenzio e riflessione.

Silvia Infranco, Time of memory – 2023 – rosmarino ossidi pigmenti bitume cera ferro argilla – cm37x16

 

Festival di Fotografia Europea 2024, La natura ama nascondersi, a cura di Tim Clark, Walter Guadagnini e Luce Lebart, Reggio Emilia, fino al 9 giugno.
Susan Meiselas, Mediations, in collaborazione con Magnum Photos
Silvia Infranco, Radici, a cura di Marina Dacci. Testo di Silvia Bottani