Encyclopaedia of Terrestral Life è un catalogo (Edizioni Merrell, 2008), curato da Francesco Manacorda e Lydia Yee, con opere di oltre 100 artisti dagli anni Sessanta a oggi. L’ipotetico “Martian Museum of Terrestrial Art” si basa sull’idea che un team di antropologi extraterrestri si sia recato sulla Terra per comprendere il fenomeno dell’“arte contemporanea” presentando le proprie scoperte ai propri simili sotto forma di una mostra. Secondo questa narrazione la civiltà di Marte si è sviluppata lontana dalla sensibilità dell’arte e dell’estetica, portando gli avatar alieni dei curatori a interpretare le opere d’arte raccolte come nient’altro che manufatti, che hanno esposto in una delle quattro categorie in base al loro valore d’uso percepito: Rituale, Comunicazione, Parentela e Discendenza, Magia e Credenza.
Questa ipotetica mostra è in parte ispirata dal primo capitolo del libro Kant after Duchamp di Therry de Duve, in cui un immaginario antropologo extra-terrestre realizza un inventario di tutto ciò che gli umani considerano arte.
Da questo punto di vista potremmo parlare non solo di un catalogo d’arte, ma anche di un meta-catalogo, che mette in discussione la grammatica editoriale proponendo con questa operazione editorial-concettuale un punto di vista ludico che interferisce con la trasmissione delle informazioni.
Divertente la provocazione, che è diretta all’Art System e alla sua inarrestabile promozione di linguaggi criptici troppo spesso intrisi di autoreferenzialità, nel tentativo di sedurre un pubblico “cool” oltre che alla sua dipendenza cronica da formalismi che mescolano minimalismo e ridondanza.
Il volume è destinato agli alieni, per fornire una possibile chiave di lettura e consentire un accesso all’arte contemporanea. Gli oggetti d’arte legandosi prima di tutto all’idea, se svincolati dal contesto, si prestano bene a essere riclassificati come “archeologia per alieni” o “archeologia del futuro”.
Molto interessante e originale la forma del carattere “alieno” – che sembra ispirato alle incisioni sulle pietre runiche, o ai visual di film fantascientifici come Predator, USA (1987) – progettato dalla designer Sara de Bondt che si ritrovava anche nella segnaletica “bi-lingue” della mostra impossibile, di cui il volume è il catalogo.Encyclopaedia of Terrestral Life
A Manacorda e Yee va il merito di aver pensato a una mostra con ambizioni curatoriali così innovative e originali, e quello di aver selezionato un gruppo di opere che, una volta che sono state decontestualizzate possono offrire comunque allo spettatore la possibilità di percepire una forte sensazione di meraviglia. Una selezione degna di una Wunderkammer allestita da qualche principe Vulcaniano.
La selezione degli artisti e dei loro lavori è appropriata allo scopo di allestire una camera delle meraviglie per scienziati alieni, come le foto “rituali” proposte da Mike Kelly o il telo che Chris Burden utilizzò nella performance del 1972 intitolata Deadman, in cui si finse un cadavere avvolto dal sacco nero della polizia scientifica, per non dimenticare i pesci in formalina di Damien Hirst, una vera e propria citazione di una reale camera delle meraviglie. L’ironia si innesca ogni volta che, decontestualizzata l’opera, diventa davvero surreale spiegarne in modo elementare il senso senza avere un moto di smarrimento e la sensazione che le sovrastrutture concettuali applicate a tante ricerche artistiche siano davvero fragili e necessitino di un atto di fede da parte del pubblico per restare in equilibrio.
xL’idea interessante, letta a quasi 15 anni di distanza può anche farci pensare al tema, oggi ritenuto imprescindibile, dell’inclusività. Nel momento in cui vengono messe in discussione le barriere esclusive e altamente selettive di cui l’arte contemporanea e il suo pubblico si vantano, per rendere comprensibili a culture lontanissime i manufatti umani, tutte le opere d’arte sembrano perdere anche la loro aura magica, vengono osservate da un nuovo punto di vista, per il quale abbiamo di fronte oggetti semplicemente inusuali, come quelli che avremmo potuto ammirare in una Wunderkammer tedesca del XVI secolo. Una decontestualizzazione che ci fa comprendere anche la fragilità degli schemi linguistici e dei riti sofisticati dell’Art System una volta che è privato dei suoi convenzionali punti di riferimento.