Sappiamo che l’intenzione di fare della Pasqua un ‘memoriale’, un poco tranquillizzante dal punto di vista psicologico e, al contempo, per paradosso, angosciante, ci riproporrà ancora negli anni a venire, nello stesso modo, uno degli eventi più significativi della storia, da cui è nata la religione cristiana. Non è un ritorno alla temporalità ciclica della grecità, ma il tentativo di vivere l’oggi in prospettiva teologica, perpetuando, approfondendo, richiamando all’attenzione un messaggio che si pone come proposta di un modo di ‘stare al mondo’.
Proprio per sfuggire alla ripetizione passiva di un atto inconsapevole o per qualche ragione personale che non ho ben sondato, ma che percepisco completamente aconfessionale e aliturgica, vado alla ricerca di interpreti che mi aiutino a vivere quel momento attraverso la loro arte. Le possibilità sono infinite, ma quest’anno sono incappato, per suggerimento di un’amica, nel Vangelo secondo Matteo di Pasolini, un film che avevo visto tanti anni fa e che mi aveva colpito, anche se non ricordavo più perché.
Già nelle prime scene si sono riaccese le sensazioni che avevo provato, quasi istintivamente, la prima volta. Il film si apre, dopo il brano musicale che accompagna i titoli, con uno scambio di sguardi tra una giovane, con un volto che sembra uscito da un quadro rinascimentale, e un uomo maturo. La scena si allarga e si nota che la ragazza è incinta. L’uomo se ne va. La cinepresa insiste sul viso della ragazza, che sembra triste. Il tutto è immerso nel silenzio. Da quel momento in poi la musica si presenta, contrappuntando con scene in cui la colonna sonora è completamente assente, mentre si odono gli strilli e le risate dei bimbi che giocano, il rumore dei passi, il nitrire dei cavalli. È un’alternanza di suono e silenzio.
Mentre sono immerso nelle sensazioni della proiezione, improvvisamente sono rapito da una domanda sul modo di intendere la musica in questo film. Quale ruolo le ha assegnato Pasolini? Da un lato c’è l’evidente intenzione di fare riferimento a proposte eterogenee, che vanno dalla musica classica, con Mozart, Bach, Prokofiev, fino allo spiritual e alle melodie popolari, attribuendo alla musica – con tutti i suoi differenti registri, stilemi, forme e colori – un canale, di pari dignità rispetto all’immagine, per concorrere a offrire il messaggio del film. Dall’altro –ed è ciò che mi stupisce maggiormente – c’è il ricorso a musiche con significati molto forti che inevitabilmente influenzano la visione. Perché non comporre una musica ad hoc? Perché affidarsi a brani preesistenti? Sarebbe stato comprensibile fare altrimenti. Siamo molto abituati, non solo alle ‘musiche accompagnamento’, ossia a colonne sonore che si adattano alle scene dei film, ma è esperienza quotidiana la fruizione della musica d’ambiente, quella che fluisce inascoltata, ma presente, in luoghi in cui si fa altro – bar, ristoranti, supermercati, ecc. -. È la musica che potremmo definire del ‘mentre’: mentre bevo un caffè, in compagnia degli amici, c’è un sottofondo blues, mentre metto le cipolle nel carrello, ecco risuonare l’ultima hit parade dell’anno.
Scegliere musiche come quelle del Vangelo secondo Matteo significa collocarsi in un orizzonte completamente differente, in cui la musica non rimane sullo sfondo, non è un ‘tappeto sonoro’ o un abbellimento, ma è lì per essere ascoltata, perché porta un messaggio. Esempio emblematico è la presenza di Bach, un compositore ‘ingombrante’ dal punto di vista del significato, che Pasolini associa a scene specifiche, in cui la dimensione della semantica bachiana affiora in tutta la sua forza propulsiva.
Alcune scene tratte da Il Vangelo secondo Matteo, regia di Pier Paolo Pasolini,
commentate dal brano Erbarme dich mein Gott di Johann Sebastian Bach
Se approfondiamo il perché della scelta della musica di Bach nel cinema di Pasolini, il tema si fa complesso e denso di sfumature. Una ragione è sicuramente biografica. Pasolini amava Bach e aveva preso lezioni di violino da Pina Kalč, con cui ebbe un rapporto di amicizia e di cui ammirava la capacità esecutiva. Una seconda ragione, invece, mi sembra più problematica e nasce dall’esperienza dell’accostamento tra sequenze e musica. Nel 1962 Pasolini spiegò agli allievi della scuola sperimentale di cinema che quando pensava genericamente di fare un film non avrebbe potuto commentarlo altrimenti che con la musica di Bach, perché amava Bach e perché riteneva la musica di Bach come ‘musica in sé’, la musica in assoluto. In altre osservazioni Pasolini riconosce il valore emotivo della musica e la sua dimensione psicologica, che svolge una funzione esplicativa in rapporto all’immagine. Si nota, in queste considerazioni, un approccio all’arte dei suoni sotto forma di commento, come aggiunta che comunica qualcosa, per esempio, l’intenzione del regista.
Prescindendo da categorie musicologiche che probabilmente sarebbero fuorvianti e tornando al Vangelo secondo Matteo, sembra che Pasolini, nonostante ciò che afferma, non si accontenti della dinamica esegetica, né usi Bach come espediente per affermare la componente spirituale o religiosa, né vada alla ricerca di una dimensione che esalti l’esperienza psicologica o l’effetto emotivo che la musica di Bach può generare. Al contrario, allude a uno strato di senso molto più profondo, prodotto dall’accostamento tra musica e immagine, tra musica e racconto, che a volte si accorda con esso, ma spesso sa essere fortemente dissonante, fino a diventare stridente. Si comprende che la musica non svolge un compito ancillare nei confronti dell’immagine. L’atto di connettere una musica portatrice di un contenuto e un simbolismo così consapevole, ed esplicito, come quello di Bach – della Matthäus-Passion, per esempio – è in grado di generare potenziali sintesi dell’immaginazione che valorizzano retrospettivamente l’immagine stessa, ossia cambiano in modo irrevocabile il significato di ciò che scorre davanti allo sguardo dello spettatore. Il regista sembra intuire questo esercizio conoscitivo, determinato dall’atto di accostamento, sostenendo che la musica può essere pre-esistente rispetto al film cui farà da colonna sonora, ma applicandola al film la renderà ‘la musica del film’ e né musica né film saranno più la stessa cosa.
Il risultato di tale sintesi non è solamente una giustapposizione di significati alle immagini, ma un modo per cercare la realtà, oltrepassando la veste della musica come descrizione, didascalia o stratagemma emotivo. Riscuotendomi dalle mie fantasie, penso alla potenziale forzatura di questa mia lettura, a motivo delle affermazioni di Pasolini stesso, che talora depotenziano il valore semantico della musica. Tuttavia, il suo film e la scelta delle musiche di Bach parlano almeno quanto i suoi scritti e dichiarano a gran voce una ‘nostalgia della realtà’, un desiderio d’autenticità dell’esperienza che non è narrato solamente dall’espressione degli attori, dai luoghi, dal montaggio, dalle musiche o dal testo, ossia dal racconto di Matteo e della comunità in cui è nato il suo Vangelo, ma dalla rete di significati reciproci e sovrapposti che si crea nell’interazione tra tutti questi elementi.Probabilmente è questo che andavo cercando per preparare la Pasqua, l’opera di un artista, Pasolini, che rinunciando a qualsiasi forma di autocompiacimento, è stato mirabilmente capace di lasciare emergere, attraverso immagini e musica, il proprio vissuto autentico del Cristo.