Un dialogo con Marco Barbon
Uno sguardo meditativo apre lo scenario del tuo teatro all’infinito spazio del Mediterraneo. Uno spazio poetico che si dirige verso un universo sospeso tra l’attraversamento e la stasi dei luoghi che vivi. Nei tuoi lavori le frontiere abbandonano la materialità delle norme per dirigersi verso una condizione “spazio-temporale” piuttosto immaginata che constatata. L’obiettivo si posa e attende di accogliere, attraverso la tua percezione, frammenti di poesia (poème photographique) che si trasformano in una visione sospesa tra l’immagine e l’immaginazione.
Marco, il tuo lavoro El Bahr si rivolge allo spazio di frontiera tra la costa e il mare di differenti città del Marocco. Uno spazio di contemplazione, diventa la cornice possibile in cui sospendere il tempo e guardare verso l’infinito dell’orizzonte. Tu lo descrivi come un territorio dell’anima, un luogo in cui le persone vanno per posare la loro routine quotidiana sull’andamento delle onde, del vento, dell’orizzonte. Un orizzonte capace di curare, di alleviare, di liberare, ma anche di sospendere lo sguardo di chi si arresta dinanzi alla speranza di poterlo attraversare, di “cercare un possibile per non soffocare”, direbbe Deleuze.
Le immagini di El Bahr sono una finestra accecante sull’oceano, sono frammenti di vita sospesi tra la rigida scogliera e il vento che accarezza le acque, portando i protagonisti che ne fanno parte in una dimensione teatrale o filmica. Quasi vicini alla pittura.
Le silhouette si stagliano delicatamente e sempre di spalle sull’immensità di quest’orizzonte, che abbraccia in una dimensione quasi surreale i corpi sospesi tra l’attesa e l’andare. Un momento di stasi, di suspense, in cui gli attori, differenti e uguali nella loro posizione sono osservati attraverso vari punti di vista nel loro doppio rapporto uomo-ambiente. La terra gira intorno al sole e ogni giorno la luce del sole la colpisce da un punto di vista differente, così come la luce nelle tue immagini illude molto probabilmente chi le osserva, che il tempo e l’uomo si spostino intorno ad essa, che gravitino con essa per comunicare senza lo sguardo e le parole, i sentimenti e i sogni di una condizione universale. Quella del vivere.
Sembra quasi che tu abbia voluto raccontare una generazione attraverso queste immagini. Ci sono donne, uomini, anziani e giovani, tutti che guardano verso la stessa direzione. Qualche volta il punto è lo stesso, qualche volta loro si spostano con te e cercano un altro punto di vista. Come possono questi sguardi contenere l’immensità delle acque? Cosa si aspettano da esse?
Mi piacerebbe sapere come hai attraversato queste anime. El Bahr, che in arabo significa “Il mare”, è un lavoro in cui ti sei lasciato trasportare o che hai condotto? Queste pose delicate e rispettose, sono il frutto d’incontri precisi o di casualità? T’immagino muoverti discreto e silenzioso tra queste vite, in bilico tra l’Oceano Atlantico e il Mar Mediterraneo. Con lo sguardo rivolto verso uno sconfinamento della frontiera, quello dell’oceano, che non ha dimensioni se non quelle di volgersi verso l’infinito. Un infinito dove posano lo sguardo tutte le persone che lo attraversano e che riposano in esso le gioie o i tumulti della vita. Uno sguardo che a noi non è dato vedere, che è rivolto al mare, luogo di riposo dei più nobili pensieri di tutti quelli che lo guardano in bilico tra la vita e la morte.
“Il mare rappresenta per queste persone uno spazio disponibile” – sostieni -, io ti chiedo ancora: cosa hai trovato fermandoti per ben tre anni a osservare questo luogo dell’attraversamento? Che cosa rappresenta per te il mare?
Tutto il tuo lavoro viaggia costantemente in una dimensione duale tra la temporalità dell’immagine e la zona di frontiera tra realtà e sogno, è documentazione e fiction. Ci conduce verso quello che non vediamo, ma che appunto possiamo immaginare, una sorta di dimensione nostalgica che per certi versi riporta all’infanzia, intesa come sguardo puro sulle cose. L’immagine diventa un documento della realtà mostrata attraverso un’incalcolabile azione, perché appunto dettata dall’emozione.
Osservando il tuo lavoro sembra di entrare in una dimensione aleatoria della vita, in cui l’incertezza, l’indeterminazione, diventano una maniera di pensare anche filosoficamente e poeticamente all’immagine.
E come in Arrêts sur Image (fermo immagine), il mio lavoro su Beirut prende le immagini da differenti video che ho girato, molto spesso di nascosto, durante la mia permanenza a Beirut. Queste immagini “ibride tra il cinema e la fotografia”, come le definisci a proposito della tua ricerca, mi portano a riflettere sulla vulnerabilità e la provvisorietà di ciò che viviamo, perché esse non sono altro che un frammento di tempo di uno spazio indefinito nella realtà e finito solo nella nostra memoria. Questa forse è la fotografia.