Prospettiva Basilico

© Eredi Gabriele Basilico, Quarto Oggiaro – Milano, 1973

Gabriele Basilico ripassa con un pennarello nero il profilo dei grattacieli di una sua fotografia di Valencia. Traccia le linee verticali e quelle orizzontali, colora la facciata, e lascia in bianco il fianco del palazzo: «la città è un insieme di pieni e di vuoti». Con il suo pennarello, versione moderna dello stilo, l’asticella appuntita a un’estremità per incidere la scrittura sulla tavoletta cerata, traccia anche il suo stile. È un architetto, e prima di una fotografia, ha in testa un’idea, un disegno mentale, un progetto. La sua città non è la New York di William Klein, con la sua vorace e palpabile vitalità; né la Pittsburgh di Eugene Smith, monumentale, funereo, poetico ritratto di un inferno industriale; né la Parigi notturna e oscura di cui Brassaï si era follemente innamorato.
Nella sua città domina la semplicità della linea e il desiderio di condurre la visione e il pensiero alla massima chiarezza. Ora aguzza e rigida, ora morbida e fluida, la linea di Basilico non si compiace di essere forza, ma preme per diventare forma. Facciate come cilindri, tetti di fabbriche come triangoli, il rimorchio di un camion che ricorda la tela rettangolare di un pittore, sono le prime foto della mostra Ambiente Urbano 1970-1980, in corso al Monastero di Astino.

© Eredi Gabriele Basilico, Bovisa – Milano, 1973

Provengono dal suo lavoro più famoso, Milano ritratti di fabbriche, una lunga indagine fotografica realizzata in diverse aree industriali tra il 1978 e il 1980.

«La città era semideserta e un vento straordinariamente energico aveva ripulito l’orizzonte, uno di quei giorni che stupiscono i milanesi (…). Questo è ciò che definirei “ipervisibilità” della luce: attraverso la luce ho immaginato prima e reso poi concreto e percepibile qualcosa che non era visibile. Una sorta di maquillage atmosferico, che ridona plasticità agli edifici, rendendo più profonde le prospettive delle strade.»

© Eredi Gabriele Basilico, Via Aristotele – Milano, 1979
© Eredi Gabriele Basilico, Bovisa – Milano, 1973

Perspectiva indica vedere attraverso, evoca l’etimo di perspicere, il cui significato è quello di vedere dentro, osservare attentamente, quanto quello di prospectare, con il senso di prospicere, guardare innanzi o lontano. Lo sguardo di Basilico si manifesta in entrambe le direzioni: si proietta in avanti, lontano, come in alcune fotografie della missione Datar, in Merlimont plage l’occhio segue la strada che scorre nel mezzo dell’immagine e si lancia verso l’orizzonte vuoto; ma vede distintamente anche da vicino, tra gli edifici distrutti di Beirut e le facciate delle fabbriche di Milano.
Sono ritratti non solo nel senso di trahere, tracciare, col prefisso re che accentua la reiterazione dell’atto grafico, l’intenzione di trarre il vero dall’incertezza del modello. Ritratto designa anche contrazione, retrazione, ritiro. La fabbrica non è più luogo di lavoro, di fatica, di conflitto, ma si ritrae in una solitudine metafisica, diventando solo la forma di uno spazio; le fotografie nascono dalla «voglia di sperimentare un linguaggio nuovo, in grande libertà e senza condizionamenti ideologici». Grazie alla completa assenza dell’uomo, la città diventa un insieme di forme e volumi svuotati della loro funzione, funzionali unicamente alla creazione dell’immagine, come accade nel dipinto rinascimentale La città ideale e nell’enigmatico Mistero e melanconia di una strada di Giorgio De Chirico. Esperienza ormai consolidata, se si considera che alcune sue fotografie sono incluse nelle sezioni Capolinea e Centrocittà del libro Viaggio in Italia di Luigi Ghirri, manifesto di un «bisogno di tornare a scoprire una normalità delle cose, antieroica, antimitica, quotidiana e non retorica».

© Eredi Gabriele Basilico, Via Melchiorre Gioia – Milano, 1978

Nelle sue fotografie non ci sono gerarchie, ma una democrazia fotografica che si traduce in assonanze visive, fra cui la facciata arrotondata e sinuosa del Palazzo “Asta” a Milano (1980), la forma cilindrica del Tempio di Minerva a Roma (1989), quella anonima e semidistrutta di un edificio a Beirut (1991) e gli scafi tondeggianti delle navi di Porti di mare. Basilico si colloca dentro il tessuto delle città, ma vi è sempre una distanza.
Mentre indaga l’immagine sul vetro smerigliato della fotocamera, il suo volto diventa un tutt’uno con la macchina. Un rituale di gesti codificati contraddistingue il suo modo di guardare, un procedimento lento e poco contemporaneo, per prendere coscienza dello spazio: «osservo la realtà capovolta attraverso il vetro smerigliato, sotto il panno, chiudo l’obiettivo, tolgo il panno, infilo lo châssis, scatto». È un autore-artista non più impegnato a documentare e interpretare la cronaca, ma a raccontare il proprio stato d’animo di fronte alla realtà: «che fotografo sono? Sono un misuratore di spazi (…). Arrivo in un luogo e mi sposto come un rabdomante alla ricerca del punto di vista. Cammino avanti e indietro, la cosa importante è cercare la misura giusta tra me, l’occhio e lo spazio».

Nelle sue foto il tempo non è sinonimo di storia e Milano non è la città delle rivolte studentesche fotografata da Uliano Lucas, o quella mondana di Mondo Cocktail, ritratta da Carla Cerati. È significativo che la stessa Cerati gli chieda provocatoriamente: «come possono interessarti solo i muri?».

© Eredi Gabriele Basilico, Via Giuseppe Ripamonti – Milano, 1978

Se c’è un Basilico “prima dei muri”, lo si può ritrovare in tutte le altre fotografie esposte ad Astino. In questo lungo flashback, che va dal 1970 al 1980, Basilico ritrae l’ambiente urbano, un insieme di quartieri, vie, automobili dimenticate a bordo della carreggiata, persone perse in uno spazio desolato.La Fiat 128 pubblicata sul manifesto della mostra, suggerisce esclusivamente un tempo cronologico, distante dall’Alfa Romeo GT 2000 con cui Pier Paolo Pasolini va incontro alla morte, e dalla Renault 4 in cui Aldo Moro viene seppellito, che hanno segnato tragicamente gli anni Settanta. Nella Milano di Basilico non vi è traccia di conflitto: gli oratori davanti ai cancelli delle fabbriche, gli studenti e gli operai che occupano le piazze, le donne che manifestano in strada per i loro diritti, sono assenti. Persino gli slogan sui muri hanno perso la loro carica irriverente e provocatoria. La scritta Prendiamoci tutto, che si legge su una parete di cemento, non ha lo stesso impatto di un Riprendiamoci la vita, Riprendiamoci la città, manifesto utopico di un’intera generazione. Un uomo attempato, con un abito elegante e gli occhiali scuri copre parte delle parole. Una freccia indica la O di “tutto”, uno spazio vuoto, forse uno zero, e segna anche la temperatura delle immagini, né sintomatiche di un autunno caldo appena trascorso, né rappresentative di un grande freddo di là da venire.

© Eredi Gabriele Basilico, Via Vittorio Emanuele II – Corsico, 1978

Nel suo disegno mentale le persone sono pura esteriorità, fantasmi che si aggirano nel vuoto desolato dell’ambiente urbano, prima che questo diventi vuota e perfetta città ideale. Delle masse non resta che qualche individuo: chi porta a spasso il cane, chi spinge in maniera inverosimile un’auto ferma, chi si muove in solitudine. In lontananza un uomo cammina nella periferia milanese, il grande edificio residenziale non ancora abitato, il traliccio dell’alta tensione, e la strada non asfaltata danno un senso di precarietà e catastrofe, come a Beirut. Altri caseggiati anonimi a Quarto Oggiaro, la strada dissestata di Bovisa, i muri sbrecciati all’Isola fanno da palcoscenico ai ritratti di ragazzini. Ciò che conta non sono i volti, i corpi, i movimenti, ma lo spazio che li contiene.

© Eredi Gabriele Basilico, Viale Fulvio Testi – Milano, 1979

C’è una foto che avrebbe potuto chiudere la mostra. Ritrae frontalmente lo spigolo vivo di un muro di cinta che divide a metà lo spazio del fotogramma. Nella parte superiore, un cartello stradale circolare riporta una freccia che punta verso l’altro. È un campo di forze nel quale si verificano dinamiche di contrazione e di espansione, un insieme di frecce che suggeriscono moti di resistenza e di fuga. Lo spigolo del muro, con l’energia della sua massa, è puntato come un dito, contro lo spettatore. Mentre all’opposto, la freccia del cartello è un invito a librarsi verso il vuoto del cielo. Si ha la sensazione di passare dallo stato solido a quello aereo, come nel più classico dei processi di sublimazione. Quel movimento ascensionale indica il desiderio di eliminare tutto ciò che è scoria, significa esaltare l’essenza della forma attraverso l’assenza di ciò che la contamina. Si può solo contemplare, immergersi in un tempo che ha perduto insieme alla linearità, qualsiasi forma di trascendenza.

© Eredi Gabriele Basilico, Via Melchiorre Gioia – Milano, 1978
© Eredi Gabriele Basilico, Viale Luigi Sturzo – Milano, 1978

 

LA MOSTRA

Gabriele Basilico, Ambiente Urbano 1970-1980
a cura di Corrado Benigni
Monastero di Astino (BG), sino al 10 novembre 2024