Come tutti sappiamo, il 25 novembre ricorre la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Innumerevoli sono gli artisti e le artiste che hanno trattato e trattano l’argomento ma noi vogliamo parlarne attraverso il lavoro di Regina José Galindo (1974, Città del Guatemala), un lavoro il suo che va oltre la violenza di genere, testimoniando come nessuna violenza è attribuibile a una categoria unica di atrocità e come la donna sia “un essere umano” e tanto basta perché possa ottenere la dignità che le spetta al pari di tanti altri esseri umani altrettanto sfruttati e violentati ogni giorno. Tutta l’opera di Galindo parla infatti di abuso e di come milioni di individui sono costretti a subirlo e certamente, in misura eclatante, le donne che con il proprio corpo in modo altrettanto eclatante resistono al sopruso e al contempo muoiono.
Nel marzo del 2014 Regina José Galindo viene ospitata al PAC di Milano con una personale curata da Diego Sileo e Eugenio Viola intitolata Estoy viva. Una performance impegnativa, sospesa tra la vita e la morte, caratterizza la serata inaugurale della mostra. L’artista guatemalteca, insignita del Leone d’oro alla 51° Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia come miglior artista under 35, giace distesa, nuda, su una sorta di pietra tombale chiusa in una stanza. Fuori dalla porta decine di persone attendono di poter sfilare accanto a quel corpo esanime. L’eccitazione tra il pubblico è palpabile. La performance, estrema, come da sempre questa artista ci ha abituati, prevede che ognuno dei presenti debba sostare brevemente accanto a lei accostando uno specchietto alle sue narici sul quale, forse, si sarebbe fissata per un istante una traccia del suo flebile respiro. All’interno la stanza si presenta come una camera mortuaria, la temperatura è molto bassa e l’artista è distesa in uno stato di semi incoscienza grazie a una dose di sedativo che si è fatta iniettare. Attraverso un gesto simbolico Galindo mostra una forma di resistenza che può essere intesa in modi diversi: la quasi morte di un “corpo femminile” come di un “corpo-popolo” prima conquistato con la forza poi reso schiavo e ucciso, facendo vivere allo spettatore una sorta di contro performance da anatomopatologo chiamato a verificare le cause del decesso. Si tratta però di morte apparente perché quel corpo respira ancora. Nonostante gli orrori narrati nella totalità della sua ricerca artistica, Regina José Galindo ci dice che quel corpo “è ancora vivo”, quel fiato che genera la vita nell’antico pneuma greco, nella ruach ebraica, nello spirito di Dio di cui parla la Genesi si manifesta attraverso il corpo dell’artista divenendo strumento, assieme all’arte stessa, capace di ri-generare la vita.
E di morte e vita strettamente legate, tanto da non poterne distinguere la differenza, parlano abbondantemente tutte le opere di Regina José Galindo. Della violenza subita dalle donne indigene, della loro resistenza politica difronte all’orrore della tortura della ferocia impiegata da un regime dittatoriale che per oltre trent’anni (dal 1960 al 1996) ha ridotto il Guatemala a un inferno sulla Terra – 200.000 le vittime di un governo assassino – . L’arte ha il dovere di parlare di tutto ciò e in tal senso il lavoro di Galindo è politico. Emblematico tra le sue opere è il video La Verdad (2013): «Non importa se cercano in tutti i modi di zittirci. La verità è lì, nessuno potrà farla passare sotto silenzio». Nel video l’autrice legge per un’ora di seguito testimonianze di sopravvissuti, perlopiù donne, ripetutamente anestetizzata alla bocca. Il tentativo è quello di imporle il silenzio. L’orrore desunto dalle testimonianze e semplicemente letto, è di una intensità tale da risultare insopportabile persino all’ascolto. Nulla viene mostrato eppure è come se dinanzi ai nostri occhi si materializzassero le scene descritte delle violenze subite dalle donne torturate da membri dell’esercito, che si accaniscono in particolare su quelle incinta abusandole ripetutamente con lo scopo di causare loro l’aborto, la sterilità e la morte. È l’orrore dello stato di guerra, qualunque guerra, che rende ogni cosa straniante come se non appartenesse a una realtà immaginabile. Coloro che lo vivono, carnefici e vittime, esistono in un corpo perennemente in tensione che porta i primi a scaricarla sui secondi i quali la subiscono impotenti, paralizzati dalla paura, e il ciclo si ripete intensificando sempre più le modalità dell’orrore così come la paralisi dettata dalla paura, in una sorta di eterno girone dantesco senza soluzione di continuità.
Dunque cos’è un corpo? Una forma sulla quale si possono scatenare le peggiori angherie fisiche e psicologiche. «Si pensa che tutto il mio lavoro ruoti intorno alla tematica di genere – dice Regina José Galindo – invece il mio obiettivo è quello di far capire che l’arte dovrebbe essere universale e che il mio corpo può essere il riflesso di altri corpi, non necessariamente quello femminile. Quando parlo della morte, per esempio, parlo della morte in generale, della morte della società, dei problemi nello Stato, ma certo ne parlo dalla mia posizione di donna perché ho un corpo di donna».
Il corpo ci appartiene, è cosa nostra, l’unica che realmente possediamo. Galindo lo usa per stabilire una connessione tra sé e il fuori da sé, tra un popolo oppresso e i suoi oppressori, tra una generazione che ha vissuto la tortura e un’altra che l’ha ascoltata nei racconti della memoria, tra tutto ciò che è privato e tutto ciò che è pubblico, tra la violenza della guerra e la speranza della pace, tra l’abuso dell’amato corpo femminile che spesso giunge a morire e l’amore incondizionato, quello puro. Tutto ciò rappresenta il corpo del mondo una forma che racchiude in sé, metaforicamente, ogni significato di oppressione. Questa forma vive e viene dall’artista incisa con la punta di un coltello che scrive sulle sue gambe la parola “cagna” (Perra, 2006), si mostra nuda in una stanza il cui accesso è consentito solo a persone non vedenti (Punto ciego, 2010) per evidenziare ciò che non percepiamo nel nostro campo visivo, si chiude in un sacco di plastica trasparente (No perdemos nada con nacer, 2000) per essere gettato tra i rifiuti della discarica di Città del Guatemala, si cela sottoterra coperto da una lastra di vetro (Suelo común, 2013) per rendere visibile a coloro che camminano su quel suolo cosa può contenere la terra che, incoscienti, stanno calpestando. Il corpo, pare dirci l’artista, questa entità così concreta, può assumere ogni significato immaginabile e inimmaginabile proprio perché racchiude in sé la possibilità estrema della violenza subita e di quella inflitta, della gioia di essere vivi e della paura di morire.
«Tutte le strade portano alla morte, tutte le strade portano alla vita» e anche la morte può risultare più leggera se a sorreggerne il peso saranno persone che ne comprendono appieno il significato, senza piegarsi perché ciò porterebbe inevitabilmente tutti a non poterla sopportare.
Nonostante Regina José Galindo tenga giustamente a sottolineare quanto la rappresentazione del peso del mondo che propone, tanto gravido di orrore quanto costantemente connesso alla vita, non sia solamente “femminile” è innegabile la spropositata misura di violenza cui tale genere è continuamente sottoposto ed è per questo che non può che essere di donna il corpo che attraverso la rappresentazione artistica, calpesta con piedi insanguinati il suolo di un paesaggio che inghiotte la realtà (Quien puede Borrar las Huellas, 2003) – un atto che denuncia la ricandidatura a presidente di Efraín Ríos Motti dittatore sanguinario che, negli anni in cui è stato al potere, si è macchiato di efferatezze e massacri inenarrabili. Non può che essere di donna il corpo che parla di una vita quasi impossibile da vivere sotto violenze ripetute e non può che essere di donna, infine, quel corpo che urla: “sono (ancora) viva”, nonostante tutto.