Incontrando le immagini di Elina Brotherus sento l’ineludibile necessità di una compartecipazione, che scaturisce da ciò che vivo come bello. È impulso immediato che non aspira al parere, né tantomeno all’opinione esperta, ma nasce quasi da un movimento carsico, dalla spinta che il fenomeno esercita sulla mia coscienza soggettiva e vuole diventare racconto d’esperienza.
Al primo sguardo, posato, come per caso, sulle prime fotografie di Seabound vengo attirato da immagini sature, in cui il colore è così intenso e prevalente da trasmettermi una sensazione di dubbio. Sono fotografie o quadri? Una donna indossa un cappotto rosso, è di spalle e si staglia su un mare blu scuro, un orizzonte che colgo solo in un secondo momento, tornando e aguzzando la vista.
C’è un riflesso azzurro sui capelli a caschetto. Pressoché nulla accade per caso, qui. Scorro avanti veloce e trovo un’altra immagine di donna, con cappotto rosso, che volge ancora la schiena, ma ripresa a tre quarti, in piedi, di fianco a una barca in cui spicca il verde pastello di banchi e palchetto. Davanti, in uno specchio d’acqua si riflette un panorama chiuso da un lembo di terra, su cui s’apre un canale. Tutto orienta a un’osservazione diagonale, in cui quell’apertura diviene il centro su cui si focalizza la vista, attratta inesorabilmente da quel punto magnetico che porta a chissà dove.
Più avanti, la donna, si direbbe in una pinacoteca, osserva un quadro. Mi interesso e cerco. È un dipinto di Amaldus Nielsen Morning at Ny-Hellesund, stesso soggetto della foto. L’occhio corre veloce su altre immagini e, progressivamente, la voce di Elina Brotherus, che nel primo scatto mi giungeva come un lieve sussurro, ora è più chiara e scandita. È un invito esplicito a entrare nel suo mondo, nel suo paesaggio che è, al tempo stesso, esterno e interno. Avanza una dinamica di rimandi, di livelli stratificati dello sguardo in cui mi sento spettatore e soggetto dell’immagine.
Come in tutti i giochi seri, offre una proposta in cui esibisce la tensione tra soggetto e oggetto del percepire e, successivamente, del conoscere, del riflettere su ciò che si prova osservando. Noto che lei stessa è la modella delle sue foto, in quasi tutti gli scatti, ma neppure un atomo di esibizione di sé o autocompiacimento mi giunge. Semmai emerge l’apprensione continua all’esprimere un mondo mediato, uno stimolo per uno sguardo condiviso, un altro individuo dotato di libertà, attraverso i cui occhi posso cogliere un simile che esperisce la realtà. La sua presenza costante come modella appare sotto forma di segno, un lessico concettuale, un gesto che continua a mantenere l’interstizio tra lei, fotografa, e me che guardo, evitando la fusione che annichilisce il dialogo, che annulla le differenze per trasformarsi in ‘confusione’.
Con questo ‘segnavia’ intuitivo, che si presenta ormai chiaro, inizio a vagabondare nel sito dell’artista e cerco altri lavori. In questo percorso un po’ casuale e istintivo, approdo in qualcosa che mi sorprende, una vera e propria storia, intitolata Annunciation, composta da fotografie realizzate dal 2009 al 2013. Come al solito, mi tuffo prima nelle immagini, senza leggere il testo che ne inquadra il significato. Foto di un calendario del 2008, foto di una donna di profilo, seduta a un tavolo, con le braccia strette sul ventre, foto di tulipani in un vaso – natura morta? –, un trittico in cui la modella siede su un divano, altro calendario, questa volta del 2009, nudo di donna, appollaiata su una sedia con le rotelle, in un ambiente che sembra ‘di passaggio’. A terra c’è una tazza. Accanto ad essa si nota quello che potrebbe sembrare, a prima vista, un pennarello.
La foto successiva chiarisce subito che l’oggetto è altro. Lentamente comincio a capire. Si tratta di un test di gravidanza. Proseguo in quello che mi appare sempre più come un diario intimo che, probabilmente, solo chi l’ha vissuto in prima persona riesce ad abbracciare profondamente. Gli sguardi trasmettono l’ansia per l’attesa, i calendari scandiscono il tempo clinico che definisce il ritmo delle cure e, contemporaneamente, l’inesorabile assottigliarsi della speranza. Gli spazi non sono mai luoghi dell’esterno, ma territori interiori in cui percepisco la solitudine, quella data dal desiderio di donare la vita e l’impossibilità fatale – sperimentata solo nel ‘peggiore dei mondi possibili’ – di riuscire a farlo.
Come in altre storie si alternano gli istanti di tristezza, a volte di disperazione, con quelli di speranza e rasserenamento. Una meravigliosa fotografia ritrae la modella in pianto. Un’immagine struggente, un’icona laica in cui immagino dardi di dolore che ne colpiscono il corpo, nudo, inerme, esposto al destino. In un’altra foto compare un sorriso appena velato, un sole giallo che scalda il viso, un abbraccio alle gambe di un uomo in piedi, un aggrapparsi, un farsi sostenere da quello che, nella mia fantasia, è il suo compagno di vita. In questo lavoro, la mia prima impressione sulla proposta espressiva di Elina Brotherus mi pare ancor più vera. È impossibile non essere toccati. Sono immagini che si presentano come uno strappo della continuità nella mia esperienza del mondo e interpellano l’empatia, fino a farne anche un vissuto. Questo fenomeno avviene in modo graduale, in un processo quasi inconsapevole, progressivo, che mi conduce a un improvviso insight. Anche qui lo sguardo della fotografa e il mio sguardo, da spettatore, per quanto si presentino congiunti, mi paiono conservare un carattere di ‘alterità’ che, invece di rappresentare una diminutio, pone le basi del mio comprendere la sua interiorità e il suo mondo, avvertendolo in modo indiretto, non senza la sua mediazione, fino a costituire il presupposto di un incontro interpersonale autentico.
Sulle tracce di questo itinerario esperienziale, consapevole del rischio di muovermi all’interno di un potenziale bias di conferma, m’imbatto in una fotografia dal titolo 4’33”, After John Cage, 4’33”, 1952. La modella, immersa in una vasca, in un’ambientazione che richiama alla memoria un antico fonte battesimale, spalanca la bocca, da cui, evidentemente, non proviene alcun suono. Da qui nasce in me l’idea che la fotografa componga ‘un’immagine sonora’ tutt’altro che silenziosa, in cui i suoni sono prodotti da noi che guardiamo la fotografia, dallo scalpiccio delle scarpe sul pavimento, dai colpi di tosse che inevitabilmente qualcuno non riuscirà a trattenere, da una motocicletta che sfreccia rombante sulla strada, da una mosca che ronza nella stanza, forse dal rumore del nostro respiro o, solamente, dal palpito leggero del nostro cuore.
Il sito di Elina Brotherus