Di fronte alle immagini di Simona Ghizzoni (Reggio Emilia 1977) è evidente quanto sia inutile porre definizioni di genere in ambito fotografico. Fotoreporter? Documentarista? Artista? Non è significativo etichettare, quanto seguire lo sviluppo della sua ricerca, che si pone nel nostro tempo storico attraverso l’originalità del suo linguaggio. Siamo partiti da uno dei suoi lavori più vecchi, Aftermath, realizzato una quindicina di anni fa in cui ha indagato con toni surreali il rapporto tra uomo e animale cercando nel suo corpo tracce di animalità. Pare che tu ci abbia visto lungo, è un lavoro quanto mai attuale…
Simona Ghizzoni – Aftermath è il primo lavoro organico in cui ho utilizzato il mio corpo per raccontare una storia ed è stato un lavoro viscerale. Per la prima volta mettevo in scena un’esperienza personale, dolorosa, attraverso l’autoritratto in relazione col mondo animale. Sono figlia unica, cresciuta da parte di madre in una famiglia contadina. Aftermath nasce da un immaginario che mi appartiene sin da allora: uno dei miei giochi preferiti, quando ero piccola, era sognare di essere l’unico essere umano ad avere accesso ad un mondo fantastico popolato solo da animali. In età adulta, la riflessione si è spostata sul concetto di animalità, su quanto ci siamo discostati dal mondo animale di cui facciamo parte. John Berger scrive: «Negli ultimi due secoli, gli animali sono a poco a poco scomparsi. Oggi viviamo senza di loro. L’animale è stato svuotato di esperienza e segreto, e questa nuova innocenza fittizia comincia provocare nell’uomo una sorta di nostalgia. Per la prima volta gli animali sono posti in un passato irrevocabile». Ecco, è come se non ci riconoscessimo più nella nostra natura animale, scollandoci così anche dal nostro habitat, dal radicamento alla terra. L’immagine della giraffa, ad esempio, rappresenta proprio questo: una grazia fuori posto, costretta fuori dal proprio luogo di appartenenza. L’ho vista e mi sono rivista.
AM – E quindi Rayuela che sembra un seguito. L’animale è scomparso dalla società, cosiddetta evoluta, nella sua forma più reale. Abbiamo, invece umanizzato i nostri animali domestici. In alcuni casi anche tragicamente, non portando il minimo rispetto nei loro confronti. È un lavoro sul tuo malessere, nato dopo l’esperienza a Gaza.
SG – Rayuela è infatti l’ideale prosecuzione del discorso. Per tre anni, dal 2010 al 2013, ho messo da parte la mia ricerca sull’autoritratto per dedicarmi all’altra mia grande urgenza, i diritti delle donne, producendo un lungo lavoro sulle donne in zone di conflitto nell’area del Mediterraneo e in Medio Oriente. Da sempre ho sentito la necessità di uscire da me, dal mio studio e incontrare il mondo. Il dentro e il fuori sono per me vasi comunicanti, l’uno non esisterebbe senza l’altro. Rayuela arriva dopo l’esperienza in Medio Oriente, anni splendidi e tragici, che mi hanno segnata. Tornata a Roma ho sentito l’impellenza di guardarmi e mettere in immagini i cambiamenti che quella esperienza aveva prodotto su di me. Ancora una volta, il mondo animale mi è venuto in aiuto per raccontare e fare pace con gli accadimenti. Le prime pitture rupestri avevano come soggetto gli animali, le prime metafore erano animali. Rappresentavano un “simile-diverso” in cui specchiarsi. Ed esistevano, nelle vite degli esseri umani, come una presenza fondamentale. Nell’arco di un centinaio di anni, nella nostra cultura, l’incontro con il selvatico è diventato raro e la percezione dell’animale sottostà a una visione antropocentrica che nulla ha a che vedere con la coesistenza e con il rispetto.
AM – Anche in Rêve Géologique si parla di ambiente, il rapporto dell’uomo con esso. Un rapporto che oggi, dopo l’ennesima tragedia, quella in Emilia Romagna, mi sento di definire oltraggioso e drammatico. Anche nelle tue opere percepisco questo senso profondo.
SG – Rêve Géologique nasce da una riflessione sulle tracce che l’essere umano lascia sul pianeta. Attorno al 1945, coi primi esperimenti nucleari, si segna la data simbolica di una nuova era geologica, l’Antropocene, in cui nuove particelle, interamente fabbricate dall’uomo, entrano nella composizione dei sedimenti terrestri. Con esse la plastica, l’asfalto, l’acciaio. Essendo così legata ai temi della relazione col nostro habitat, leggevo tanti articoli scientifici sull’impatto dell’essere umano sull’ambiente, ma l’impressione era sempre che restassero per me astratti, lontani, incomprensibili, basati su scale che non riuscivo nemmeno a immaginare. Allora, nel 2019, ho deciso di provare a trasformare questi dati in immagini, pensando che visualizzandoli sarebbe stato più facile comprenderli. Ho lavorato principalmente in Italia, osservando attorno a me, nella mia quotidianità, come interpretare questi dati visivamente. Ognuna delle immagini è corredata dall’articolo da cui ho preso spunto, come lunghe didascalie. Un’immagine su tutte, l’eutrofizzazione delle acque dovuta principalmente ai residui di fertilizzanti delle colture e agli allevamenti intensivi: mi trovavo in un laghetto in cui le alghe avevano completamente ricoperto la superficie e mio figlio lanciava sassi nell’acqua. Molto semplicemente, quello di cui parlava l’articolo era lì, davanti ai miei occhi. L’Emilia Romagna è come sai la mia terra di origine e provo un dolore fisico per quello che sta succedendo. La natura fa il suo corso, non sempre benevolo, ma la costante mancanza di rispetto nei confronti dell’ambiente a fini di profitto fa parte di quella distanza dal nostro essere animali che crea tragedie. Siamo interdipendenti, dovremmo ricordarlo.
AM – In una foto di quella serie hai gli occhi bendati. Perché?
SG – In tutte le immagini in cui compaio, gli occhi sono coperti. Sono coperti perché non vedendo non riuscivo a comprendere. L’impressione che ho avuto su di me e che credo sia comune a molti è di non riuscire a vedere nel proprio quotidiano cosa possa significare essere entrati in una nuova era geologica. Negli autoritratti rappresento un’umanità cieca. Sono molto critica verso la rappresentazione mediatica del periodo storico che stiamo vivendo, fatta di allarmismo ed emergenza, in cui manca però l’educazione al pensiero, al senso civico e di comunità.
Il mio rapporto con la natura poggia su un piano più ancestrale, un rapporto quasi solitario e di connessione interiore, fatto di richiami antichi e di presente, molto distante da quello proposto come rapporto uomo-ambiente attuale.
“La Natura è un tempio ove pilastri viventi
lasciano sfuggire a tratti confuse parole;
l’uomo vi attraversa foreste di simboli,
che l’osservano con sguardi familiari”.
(C. Baudelaire)
AM – Con Innaturale esasperi questo rapporto. Hai fotografato anche dei diorama? In tal senso mi viene in mente certo Sugimoto, sbaglio?
SG – Amo Sugimoto. L’arte giapponese è sempre stata una grande fonte di ispirazione per me, proprio perché ha una profonda attenzione alla natura e all’animale, sia nella fotografia che nell’illustrazione, nella pittura e nell’artigianato.
Con Innaturale racconto di un mondo in cui il selvatico è addomesticato, una sorta di teatro per i nostri occhi. In tutte le immagini gioco sull’idea del tagliare fuori dall’inquadratura la cornice, il recinto e mostrare come queste visioni siano solo all’apparenza reali, naturali, selvagge, ma in realtà siano l’esatto contrario. La fotografia ha il potere di farti credere in quello che vedi, per sua costituzione, ma quello che vediamo in queste opere è solo un dettaglio di un quadro più grande che va scoperto e interpretato.
La mostra Innaturale, alla MLB Gallery di Ferrara nel 2020, era collegata concettualmente a un’ampia retrospettiva di Antonio Ligabue a Palazzo dei Diamanti. Ligabue, oltre a essere stato un mio conterraneo nel suo periodo di attività, spesso dipingeva animali esotici che aveva potuto vedere solo negli zoo. Allo stesso modo, il mio lavoro si sviluppa negli zoo e nei musei di storia naturale dove l’animale diventa un elemento scenografico, un reperto. Ma allo stesso tempo, torna metafora. Ancora una volta, più che un mio tema, una mia ossessione creativa.
AM – Mi interessa il tuo rapporto con il cinema, con Alina Marazzi. Vogliamo parlarne. Anche qui colgo un rimando a Francesca Woodman.
SG – La collaborazione con Alina Marazzi è stata per me un momento straordinario. Un’ora sola ti vorrei è stato uno dei film che più hanno segnato il mio immaginario.
AM – Anche io l’ho amato molto, un’opera di grande poesia che non cade mai nel melenso, nonostante il soggetto. Da un punto di vista linguistico molto interessante.
SG – Ci incontrammo nel 2011 e mi raccontò del suo progetto sulla depressione post-partum Tutto parla di te: è la storia di un’amicizia che nasce tra una donna adulta, Pauline, interpretata da Charlotte Rampling e una giovane ragazza, Emma, interpretata da Elena Radonicich, che ha grosse difficoltà dopo la nascita del primo figlio. Alina Marazzi mi fece leggere la sceneggiatura e mi chiese di trasformare in fotografie i ricordi traumatici di Pauline. Come riferimento, mi mostrò proprio alcune immagini di Francesca Woodman. La difficoltà nel lavoro fu cercare di tenere un collegamento con un corpus così iconico come quello di Woodman e riattualizzarlo. Ricordo che come primo passo mi interrogai su cosa effettivamente raccontassero le opere di Woodman. Per me, prima di tutto, una relazione di inquietudine e inadeguatezza con uno spazio che costringe. In questo senso la depressione post-partum aveva degli elementi comuni: non sentirsi adeguata, sentire lo spazio per sé che si rimpicciolisce attorno, la solitudine. Questo lavoro nasce da una serie di disegni, condivisi con Alina, da un lungo lavoro preparatorio in cui ho provato i set con l’autoritratto e infine con le opere definitive in cui ho diretto Elena Radonicich. All’epoca ancora non ero madre, ma ho avvertito che fosse un racconto importante e che desideravo aiutasse a mettere in discussione un’idea stereotipata della maternità. La maternità non è solo luce, è anche ombra e, ancora una volta, visualizzare quest’ombra può, spero, essere un primo passo affinché non sia più un tabù, ma uno stimolo a creare discorsi e azioni concrete a sostegno delle donne.
AM – Già in Aftermath e poi in Autoritratto, su per giù degli stessi anni, una quindicina di anni fa, sei protagonista dei tuoi lavori. Come spieghi questo bisogno di essere oggetto e soggetto della tua ricerca?
SG – Da adolescente ho sofferto di disturbi alimentari. C’è stato un lungo periodo in cui letteralmente non mi vedevo: l’immagine di me che lo specchio restituiva non mi corrispondeva. Non sapevo se fidarmi dei miei occhi o di quelli degli altri. Ho acquisito molto presto consapevolezza del fatto che le immagini potessero mentire, ma anche del fatto che, se potevano mentire, forse potevano anche ricostruire. Durante gli anni in cui la malattia è stata più violenta, sono scomparsa dalle fotografie di famiglia, dagli album, non esistevo. Verso i 19 anni ho deciso che avrei riempito io quel buco e ho iniziato a scattarmi degli autoritratti. Istintivamente ho capito che la fotografia era uno strumento per raccontare la mia storia nella mia versione e riprendere in mano la narrazione della mia vita. E così è accaduto. Lentamente, ho messo in immagini tanti buchi, i “fueros” freudiani. I “fueros” sono dei vissuti che non riescono a trovare un posto nella nostra storia, che mancano, secondo Freud, di una traduzione. Lavorare con l’autoritratto significa tradurre visivamente i propri “fueros”, ciò che è fuori posto, e trasformarli in un racconto, che ci permetta di interiorizzarli e accoglierli. La fotografia di autoritratto è stata e continua a essere sviluppata soprattutto dalle donne, spesso nel desiderio di raccontare la propria storia dall’interno, quando l’esterno offre solo stereotipi.
Basti pensare a Claude Cahun o a Carrie Mae Weems, che in epoche diverse, ma sempre con grande coraggio, hanno sollevato un velo l’una sull’identità in relazione alla propria omosessualità e alla propriocezione, l’altra sulla vita privata delle comunità afroamericane negli Stati Uniti.
AM – Isola è il tuo lavoro che sento più vicino alla mia sensibilità. Sono una serie di fotografie assai raffinate dove mi pare che tu abbia posto il tuo microcosmo personale e familiare in diretto rapporto con il macrocosmo, il mondo che in quel momento stava vivendo una particolare sofferenza.
SG – Isola è il lavoro in cui sicuramente mi sono più esposta. Sono andata via di casa a 19 anni. Mi sono sentita strana ovunque mi fermassi, in continua urgenza di muovermi. Non appartenevo. Poi, nel 2018 è nato Ernesto, mio figlio. Nel 2020 all’inizio della pandemia, ho deciso di tornare nella casa che fu della mia famiglia materna, sull’Appennino reggiano, cercando di comprendere se ci fosse, nonostante tutto, un legame che unisse mia madre, me come nuova madre e la terra in cui sono cresciuta. Non ho fatto altro che raccontare ancora una volta questo legame profondo, in cui, come dici, il mio microcosmo si collega con il macrocosmo nella semplicità del gesto quotidiano. Da quel marzo del 2020, attraversando altri territori e altre case, questa ricerca è diventata la compagna delle mie giornate e ho scoperto che gran parte del mio lavoro nasce proprio da una sorta di nostalgia delle mie origini. Cito Giovanni Lindo Ferretti, mio conterraneo: «Non è una vita comoda. È una vita bella e ragionevole». Isola parla, attraverso autoritratto, staged photography e immagini di documentazione quotidiana, di me, della mia nuova famiglia e di questa nuova vita scomoda, ma bella e ragionevole.
AM – Ho volutamente tralasciato di parlare in questa intervista dei lavori che hai fatto sui disturbi alimentari, anche se l’argomento è emerso. Mi pare debbano essere trattati in maniera più ampia e non nel corso di una intervista in questa forma. Qui, invece, vorrei chiederti di parlarci del tuo concetto di normalità.
SG – La normalità “di per sé” per me non esiste. Gli incontri che ho avuto il privilegio di fare nei miei ormai 15 anni di lavoro mi hanno permesso di guardare alla normalità come semplicemente alla possibilità di esistere per come siamo senza ostacoli. Tendiamo a pensare che lo stato di sofferenza sia un evento fuori dall’ordinario, uno stato di eccezione; pensa ad oggi in cui ci costringiamo a porgere sempre il nostro profilo migliore sui social, una sorta di condanna senza appello ad essere felici. Ma nella mia esperienza le ombre sono una parte fondamentale, sia della vita che delle mie immagini. Del resto la parola “crisi” etimologicamente deriva dal greco κρίνω, “separare, scegliere, decidere”. La crisi è il preludio al cambiamento e la normalità è nulla più che la costruzione del nostro modo individuale di partecipare al mondo.
AM – Ti poni in modo diverso quando fai ricerca nel tuo studio e quando la fai sul campo, come in Israele?
SG – Entrambi i filoni iniziano da una lunga ricerca, sia culturale che iconografica. Provengo da un background accademico e lo studio per me è essenza e base di ogni progetto di cui lo scatto è spesso solo il capitolo finale: dopo un lungo periodo di studio, poi, nella pratica cerco di dimenticarlo e tornare al mio approccio istintivo, di pancia. Penso, scrivo, faccio bozzetti, anche nei lavori di documentazione, e poi nel momento effettivo dello scatto sul campo desidero che il caos rientri, quella parte che ha a che fare con l’empatia e col caso, con l’incontro e con la meraviglia.
IL SITO DI SIMONA GHIZZONI
Rappresentata in Italia da MLB Gallery