Come si legge una poesia? Quali immagini evoca? Dire: ‘come si legge una poesia’ vuol dire: come io leggo, come noi leggiamo una poesia; ma vuol dire anche: come la poesia legge se stessa, come si svolge in sequenza di immagini davanti ai nostri occhi, attraverso la nostra o una altrui voce.
Immagini desiderate, sognate, o temute, che rispecchiano il nostro sentire, quello che non sappiamo dire, quello che non sappiamo ascoltare, quello che non sappiamo vedere.
Leggo e rileggo una poesia di Sor Juana Inés de la Cruz, poetessa barocca.
Juana Inés de Asbaje y Ramírez de Santillana nasce nel Virreinato de Nueva España (Messico). Bambina prodigio, scriveva poesie a sette anni. A sedici anni è dama d’onore della Virreina, Leonor Carreto de Toledo, Marquesa Mancera. La sua intelligenza e la sua cultura sono oggetto d’ammirazione. Nell’agosto del 1667, a 19 anni, entra in convento.
Sor Juana è figlia del suo tempo, e delle convenzioni sociali di un’epoca per noi troppo lontana. La sua cella è una ricca biblioteca, ospita strumenti scientifici, è luogo di incontro.
Questo forse non basta a spiegare la scelta del convento. Ma chi si sporge veramente nel vuoto del non detto, del non visto, oltre i confini del pensiero consueto, scolastico – l’artista, lo scienziato, il cercatore di conoscenza – vive nella consapevolezza dell’abisso. Il rischio di perdersi porta a cercare un vincolo esterno. Il vincolo come mitigazione del rischio, risposta al timore di soccombere all’eccesso, al timore di non saper porre limiti a questo piacere sì forte.
Di qui la paradossale situazione: cercare il pensiero più libero, più autodidatta, e allo stesso tempo cercare l’avallo della Chiesa, del confessore, assoggettarsi al suo nihil obstat.
In molti si sono chiesti: perché Sor Juana non scrive di teologia?
Perché, possiamo dire, lei si è costruita la sua sopportabile gabbia conventuale proprio per potersi permettere di scrivere di amore. Amore nella più ampia accezione del termine.
Nel suo tempo, fu una figura leggendaria. Le sue opere erano vendute con grande successo in Spagna. Ma alla fine rinuncerà a tutto e la sua vita si concluderà nel silenzio.
Fonte: Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes
Fonte: Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes
Attraverso la poesia
Capire qualcosa di nuovo e di nascosto, attraverso la poesia. Qualcosa di noi stessi. Poesia che porta alla luce e richiama e spiega profondità altrimenti insondabili della nostra soggettività. Poesia che allaccia con la chiarezza di un sogno ciò che desideriamo e vorremmo accadesse. Poesia – certi versi, proprio quelli, solo quelli, che ci parlano misteriosamente, al di là della lettera, al di là forse delle intenzioni dell’autore.
Versi cristallini, in apparenza puro gioco retorico guidato dalla rima e dal ritmo delle assonanze.
Versi come gocce, liquidi. ‘Liquido’: chiaro, limpido, lasciato libero.
Versi come palinsesto, tavoletta di cera, scrittura a cui attribuire il senso che sentiamo necessario.
Versi che possono essere letti come sguardi. Versi presenti qui ed ora. Versi nei quali trovo le parole che potrei dire, che non so ascoltare adesso.
Tras-locare: collocare oltre, sempre, il proprio desiderio. Dilapidare le parole, i gesti. Dilapidare, gettare qua e là come pietre. La costruiremo con queste pietre la nostra casa? Se i tuoi occhi posati su di me li vedo attraversati da ombre improvvise, solo allora ricordo che non ci sono solo io nella tua vita. Ti ho vista lasciare libera la mente. Ho condiviso con te il tuo piacere stupefatto. Ho conosciuto qualche tuo sogno e il tuo inesausto desiderio di sapere. E hai amato di me proprio quello che ritenevo più degno di amore. Ritenevo: tenevo chiuso dentro, non riuscendo più a gridarlo, a sbandierarlo al vento senza angoscia.
Parole cantate con leggerezza e con grazia, ma come asciugandosi una lacrima.
Versi remoti che parlano di concetti che sono acqua chiara, lacrime, cuore in mano, mi piange il cuore, non sangue ma umore cristallino, acqua di fonte.
La poesia trasforma: non sangue, ma acqua, purezza, stilla.
Amore disfatto, sciolto. Dolore pianto dolcezza.
Il testo in apparenza chiuso e anzi sigillato, articolato solo per rimandi interni, rimanda invece al mondo – gioco sempre barocco, ma americano, barocco legato all’aria più trasparente, quella trasparenza della luce americana che sorprese Humboldt.
La poesia scrive graffi dolorosi sulla tavoletta di cera della retorica, la retorica prende vita e si fa parola quotidiana.
Trasformazione, retorica generativa: argomentazione come opera di convincimento dell’amato; argomentazione come opera di congiungimento simbolico con l’amato.
Invito a parlare senza timore il linguaggio dell’amore, semplice e puro. La retorica, fonte di nascondimenti, è al servizio del pudore. Usando frasi fatte non dovremo dire di noi. Potremo evitare di arrenderci alla semplicità assoluta dell’amore. Ma la retorica gira su se stessa. Sperimentato l’estremo artificio, svuotato il sacco delle sue meraviglie, ci lascia senza abito, ci impone di riscoprire la purezza del sentimento.
E così anche parlando attraverso luoghi comuni, attraverso frasi fatte, parleremo ancora e di nuovo e inequivocabilmente di noi.
Guardiamo allora senza vergogna a queste opposizioni. Misuriamoci rispetto ad esse.
dolore / amore
sangue / acqua di fonte
amarezza / dolcezza
durezza / tenerezza
sospetto / certezza
gelosia / affetto
pregiudizio / fiducia
Impariamo di nuovo a vivere l’amore come dono senza spazio per gelosie. Un mondo fuori dal mondo, un cielo anteriore abitato solo dai due amanti. Estasi, mente vuota riempita solo dal presente. Dove tutto è in gioco tutto è dato e tutto è preso.
L’amore idealizzato ma anche realizzato oltre ogni possibilità, al contempo nella realtà e nel sogno condiviso. In un suo spazio intangibile, salvato, mondo possibile abitato solo dalla coppia, spazio virtuale abitato dai due e solo da loro.
Avvolto su se stesso il ragionamento attorno a questa poesia, ri-pensata la strana ragione che mi avvicina a questa e non ad altre poesie, posso rileggerne i versi.
Esta tarde, mi bien, cuando te hablaba,
como en tu rostro y tus acciones vía
que con palabras no te persuadía,
que el corazón me vieses deseaba;
Y Amor, que mis intentos ayudaba,
venció lo que imposible parecía
pues entre el llanto, que el dolor vertía,
el corazón desecho destilaba.
Baste ya de rigores, mi bien, baste;
no te atormenten más celos tiranos,
ni el vil recelo tu quietud contraste
con sombras necias, con indicios vanos,
pues ya en líquido humor viste y tocaste,
mi corazón desecho entre tus manos.
E ora tradurrei:
Stasera, bene mio, quando ti parlavo,
e vedevo sul tuo viso e nei tuoi gesti
che con parole non ti persuadevo
desideravo mi vedessi il cuore;
E allora Amore, che mi aiutava,
riuscì dove impossibile pareva:
e così nel pianto, che il dolore versava,
era il mio cuore disfatto a lacrimare.
Basta con le punizioni, bene mio, basta
non farti tormentare più dalla gelosia
e non cedere ai sospetti vili
alle ombre sciocche, agli indizi vani
perché nel liquido umore hai visto e toccato
il mio cuore disfatto nelle tue mani.
Dietro il gusto barocco, tipico dell’epoca, vena cristallina, trascinante traslucido desiderio di trasparenza, di dolcezza, di pace, di calma. Ma c’è un grumo doloroso, un rovesciamento di senso – e sta tutto nella seconda quartina, ed in particolare nei suoi due ultimi versi:
E allora Amore, che mi aiutava,
riuscì dove impossibile pareva (oppure, potremmo dire: liberò ciò che impossibile pareva)
e così nel pianto, che il dolore versava,
era il mio cuore disfatto a lacrimare.
Il cuore e le lacrime
L’amore che sfiora i propri limiti, che cerca di andare oltre i condizionamenti e le remore, comporta pericoli, potrebbe ‘spezzare il cuore’.
Quando ‘si spezza il cuore’? Amore solo a tratti riesce a vincere, prendendo il suo spazio; solo a tratti riesce ad affiorare – e sono allora momenti di benessere indicibile, un benessere di origini remote e profonde, un benessere che schioda e che porta alla luce la purezza dell’anima. Amore senza difese, perfetto e delicato. Eppure perfino in quei momenti ci sono le lacrime, c’è un grande dolore che si confonde con l’amore. Il timore dell’abbandono, il calore della passione che si teme destinato a scemare, l’incombente gelosia.
Gli amanti si rassicurano aprendosi reciprocamente il cuore. Metafore comunissime, povere almeno in apparenza: ‘cuore in mano’, ‘tenero cuore’, ‘cuore mio’,– e non si può sapere se chi parla pensa all’amato, o parla di sé –. Poi, quando il temuto dolore prende corpo, le espressioni si colorano di sangue, ‘mi sanguina il cuore’, la terribile immagine del fluido rosso che sgorga dalle vene, dispersione, perdita, vita che fugge via. Indicibile sofferenza che le parole non sanno, non possono dire, insopportabile dolore quando si spezza il cuore, tanto che affiora il bisogno di cercare altre metafore, e dopo ed oltre il sangue ecco apparire – ‘mi piange il cuore’ – la cristallina purezza delle lacrime, acqua benedetta che monda e che lava e che purifica, acqua di fonte, fonte della vita, rigenerazione, transustanziazione dove il sangue finalmente si trasforma in acqua pura e attraverso quelle lacrime arriva di nuovo, finalmente, la pace interiore.
Il cuore come luogo dell’amore. Sor Juana usa spesso cuerdo, cordura: ‘saggio’, ‘saggezza’, ma c’è una sfumatura che per Sor Juana doveva essere ben presente.
Cuerdo deriva dal latino cor, ed è quindi ‘saggio’ chi segue le mozioni del cuore, una concezione della saggezza che a Sor Juana doveva sembrare normale, quotidiana, e che a noi suona oggi abbastanza strana. Perché siamo influenzati da una lettura illuministica dell’idea di saggezza, una lettura che esclude il cuore. La mente e il cuore per Juana tendono a identificarsi, è il cuore a indicare i comportamenti ‘saggi’, ragionevoli; non così per noi figli dell’illuminismo. Per noi vige l’opposizione, difficile da ricomporre, mente/cuore, intelletto/cuore, ragione/cuore. Il cuore è poco saggio, per noi. Il cuore, per noi, è riletto attraverso il romanticismo: abbandono, delirio, cupio dissolvi, non comportamento ‘saggio’. Non capiamo perciò molto di Sor Juana – e forse di noi stessi.
Il cuore disfatto dal dolore distillava: si sfaceva goccia a goccia, e miracolosamente, misteriosamente, non è sangue quello che sgorga, ma cristallino umore, lacrime, acqua di fonte, sorgente di vita, vita rinnovata dall’amore che sa vivere se stesso oltre la sofferenza oltre il dubbio, oltre la gelosia.
Lacrime come gesto cortese. Lacrime utilizzate come segni.
Le lacrime, e ogni specie di espressione orale dei sentimenti, non sono fenomeni esclusivamente psicologici e fisiologici, legati all’incomprimibile interiorità – ma fenomeni sociali, contraddistinti dalla non spontaneità e dal perfetto obbligo.
Dunque è più che un lasciar vedere i propri sentimenti. È un manifestarli agli altri, e in particolare a un altro, attraverso un linguaggio diverso dalla parola. Un linguaggio meno esplicito, ma per questo più chiaro, trasparente come acqua.
L’amore sa andare oltre i fatti che potrebbero ‘spezzare il cuore’, oltre il suo limite, purifica se stesso. Potremmo dire, salta di dimensione, costruisce un nuovo mondo. Solo a questa altezza l’amore terreno, che viene sempre prima, è metafora dell’amore celeste. Mistico, estatico, ascetico.
L’amore senza guscio, l’amore che è totale abbandono è forse di per sé fonte di dolore: chi lo vive con pienezza non può concepire che la sua immensa intensità sia veramente corrisposta. Di qui lo spostamento, la sublimazione – il rifiuto o meglio il superamento della carne, nel senso evangelico, paolino del termine, l’amore è riletto nell’assoluta soggettività dell’amore per Cristo, l’altro che non potrà deludere, l’altro mistico, idealizzato della tradizione ascetica spagnola, Juan de la Cruz, Teresa di Avila, e poi della poesia barocca – dove la ricerca dei simboli, delle immagini perfette è la vetta –. (Ed ecco Sor Juana Inés, in modo personalissimo figlia di entrambe le tradizioni).
Sono quasi soddisfatto di questa mia lettura. Che mi da ragione dell’attrazione che provo per questi versi, e mi da pace e mi illumina. Eppure forse l’interpretazione è fallace. È maschile. È facile leggere nei versi la voce di lei che si rivolge a lui – maschio innamorato, che si intromette nella sua vita e poi in qualche modo si nega –. Lui vuole pensare che in questi versi lei si rivolga a lui. E invece forse no, oltre la mia comprensione lei parla, molto prima che con lui, con se stessa, parla dall’interno del suo Castello Interiore, ragiona tra sé e sé dell’amore Assoluto. Il fatto che lui non capisca non possa capire, capirla, è in fondo parte del dolore, ma una parte marginale del dolore, che è un dolore assoluto, che viene dal profondo, un dolore che è frutto di una superiore capacità di comprensione dei dolori del mondo. Mentre lui, che pure è irrimediabilmente fuori scena, si affanna a credere che il dolore dipenda da lui e riguardi la sua persona.
L’Amato non è lui, carnale apparente oggetto del desiderio, l’Amato è quell’amore assoluto, forse in vita inattingibile, l’amore che lei desidera, amore rispetto al quale ogni forma sperimentata di amore è insufficiente e in qualche modo meschina – di qui l’ascesi, il cammino estatico: la ricerca di una pienezza che ‘sta fuori dalla mente’, inimmaginabile e forse inattingibile e per questo estremo oggetto di desiderio, unica ultima meta che merita di essere cercata. (Oltre il sé, oltre ogni egoismo).
Nasce da qui, per me, guardando oltre la soglia del mio sguardo, un possibile explicit. Una uscita da questo discorso con me stesso.
Perché infine le parole di Sor Juana mi portano in sogno in un meraviglioso luogo dove l’amore ha luogo nonostante tutto, e sul volto esangue di lei vittima dell’amore assoluto incompreso incomprensibile le lacrime scorrono come adorno, bellissimo adorno per un volto purificato, in pieno benessere, al di là del dolore – e il suo volto trasfigurato parla per lei, come se due sue lacrime si fossero trasformate in sfere di cristallo che ora le ornano i lobi delle orecchie come orecchini e lei diventa più bella ed è tanto felice e sta così bene…