Top Gun Maverick, con un incasso che ad oggi ha superato abbondantemente il miliardo di dollari, è riuscito in un intento non così scontato: eguagliare, anzi, superare il successo di pubblico ottenuto dal suo predecessore Top Gun, nel lontano 1986.
Credo che questo risultato non fosse così ovvio (mi riservo, in proposito, di coltivare l’ambizione del dubbio), poiché realizzare il sequel di un “cult” molto legato alla temperie culturale (e politica) dell’epoca in cui uscì, avrebbe potuto anche rivelarsi un’operazione piuttosto rischiosa al punto da diventare un flop.
Top Gun, l’originale, uscì nell’autunno del 1986. Erano gli anni di Reagan e degli ultimi scampoli di Guerra Fredda; anni all’insegna di un’estetica patinata – di derivazione pubblicitaria, ma contaminata anche dal linguaggio del videoclip (il compianto Tony Scott, regista del film e fratello di Ridley, effettivamente proveniva dal mondo della pubblicità), contraddistinti da un edonismo diffuso, muscolare e da un culto della competitività spinto ai massimi livelli. Qualcuno ricorderà, a questo proposito, la famosa scena in cui i cadetti si sfidano a una partita di Beach Volley, sfoggiando tutta la loro prestanza fisica e il loro look, quasi come fossero in passerella: Levi’s 501, torso nudo al “top” – appunto – della tonicità, occhiali da sole a goccia e chioma fluente. Elementi che insieme costituirono un’iconografia che colonizzò l’immaginario di milioni di ragazze e ragazzi (questi ultimi in cerca di modelli da emulare).
Top Gun (1986), regia di Tony Scott. Trailer italiano, distribuzione United International Pictures
Io andai a vedere Top Gun una domenica pomeriggio, con i miei amici di allora, com’era consuetudine per noi, di fatto ancora ragazzini. Ricordo che il film non mi piacque particolarmente (forse ero ancora immerso in mondi cinematografici, per così dire, più “bambineschi”). Però, negli anni a venire mi capitò di rivederlo (mai per intero, a dire la verità…), soffermandomi su quelle scene che comunque mi erano rimaste impresse. Top Gun aveva quindi lasciato un segno anche su di me. Comunque sia, quel film stroncato da buona parte della critica – che lo bollò come “un lungo spot reazionario di propaganda reaganiana” – aveva certamente saputo parlare a una generazione.
Per questa ragione ho nutrito qualche perplessità su un presumibile successo del sequel; proprio perché ho avuto l’impressione che fosse passato troppo tempo (36 anni di “assenza” sono tanti) e che forse il film avrebbe rischiato di condannarsi a un’involontaria auto parodia (cosa che, per certi versi, è accaduta; seppur senza ostacolarne il clamoroso successo di pubblico).
Pertanto, il mio approccio alla visione è stato inizialmente prevenuto, mosso da un meccanismo derisorio intriso di quella curiosità “voyeuristica” con cui si va a vedere un fenomeno da baraccone. Si potrebbe riassumere un simile atteggiamento in questi termini: lo snobismo è una specie di cane randagio addomesticato, i cui morsi fanno più male di una bestia lasciata al proprio randagismo.
In tutti i modi, durante la proiezione ho avuto modo di correggere il mio sguardo.
Intendiamoci: Top Gun Maverick probabilmente non è un bel film; o meglio: non nel senso rigoroso del termine. Eppure, nonostante i suoi evidenti limiti – compresi quegli aspetti di auto parodia sopra citati, non si sa quanto voluti o casuali, sebbene una dose di ironia credo sia evidente – è un film avvincente e non privo di un certo romanticismo che ne fa, nella sostanza, un’opera sincera; questo, al netto del suo contrario: un’operazione commerciale che sfrutta abilmente la propria matrice nostalgica, vero dispositivo dell’opera.
D’altra parte Top Gun Maverick è una celebrazione (elegiaca e al contempo attualissima) di Hollywood (universo magnifico e spettrale, regno degli ossimori e dei paradossi). Per questa ragione è un film che dice molte cose sul cinema, magari senza volerle dire.
Come Hollywood, del resto.
In fondo è un film targato Paramount. E “se è un film Paramount, è il miglior spettacolo in città”: così recitava lo slogan della Paramount Pictures negli anni d’oro delle Major hollywoodiane.
Infatti il film, copia carbone riattualizzata dell’originale di 36 anni fa, si apre con il brano Top Gun Anthem, di Harold Faltermeyer e Steve Stevens, che “carrella” sul logo della rinomata Casa di produzione cinematografica e sui titoli di testa: esattamente come allora.
Certo questa intro potrebbe, già di suo, dare ampia legittimità a più di un sorriso ironico. A dire il vero, qualche sorriso potrebbe strapparlo anche la presentazione al film – parte integrante dell’opera, pur essendone distaccata – declamata da un sorridente Tom Cruise che, come una statua di cera che tenta di farsi beffe del tempo – proclama con sguardo diretto in camera: «[…] vi offriremo un’esperienza cinematografica autentica e coinvolgente […] Esclusivamente sugli schermi più grandi e solo nei cinema […] Questo film lo abbiamo fatto per voi» (la restituzione del breve monologo è vagamente apocrifa, ma le parole pronunciate dall’attore sono più o meno le medesime). Di fatto, un inno sincero a Hollywood, allo spettacolo “puro” e al cinema; o a un certo cinema, “puro”. Questo annuncio, posteriore alla realizzazione dell’opera (le riprese sono state effettuate tra il 2018 e il 2019) ne sintetizza la sostanza. Top Gun Maverick appartiene a un cinema che sembra provenire dal passato e che, invece, è ancora presente – al cinema – nel presente. Un cinema fatto di eroi “buoni”, seppur tormentati, e di nemici cattivi. Pete ”Maverick” Mitchell/Tom Cruise è un uomo che riemerge da un tempo quasi remoto, apparentemente sorpassato dalla Storia; concetto fondamentale che all’inizio del film viene puntualizzato da un personaggio importante: il Retroammiraglio Chester “Hammer” Cain, superiore di “Maverick” (interpretato da Ed Harris). E infatti, sempre per la regola dei paradossi e dei contrari che contraddistingue un filone – chiamiamolo così – del cinema hollywoodiano (quindi parte corposa della cinematografia americana), la forza del film e la sua “non mortalità” stanno proprio in questo aspetto.
A questo punto mi perdoneranno (spero) gli osservanti e i rigorosi, se mi permetto di scomodare un illustre antecedente cinematografico; un trascorso incorniciato da una porta che si apre su una sagoma severa, scolpita nel deserto: Ethan Edwards/John Wayne, il protagonista di Sentieri Selvaggi (The Searchers, John Ford, 1956). “Maverick” è una sorta di contemporaneo Ethan Edwards: un uomo che proviene dai “Sentieri Selvaggi” della Storia del Cinema. Il Tom Cruise dell’odierno Top Gun è simile – certamente non nell’aspetto consunto di “Duke”/Wayne – all’eroe (nel senso antitetico del termine) di The Searchers. Di certo, ne incarna lo spirito e, di conseguenza, l’anima di un cinema “non mortale”.
Come Ethan Edwards, “Maverick” deve fare i conti col proprio passato e trovare il suo posto nel presente. Non ci sono gli Apache, non c’è il deserto come in Sentieri Selvaggi; ma ci sono i sensi di colpa, gli affetti perduti e quelli da riconquistare, nonché gli indispensabili (mortali ma immortali) “nemici” (in questo caso senza nome, nel primo “Top Gun” erano dichiaratamente i sovietici; in realtà, non è poi cambiato granché…). “Maverick”, come Ethan Edwards, viene da una frontiera che non esiste più. I suoi “sentieri selvaggi” sono quelli del cielo; quelli di Ethan Edwards erano la Wilderness, la terra desolata.
Entrambi, alla fine, troveranno un loro posto nel loro presente; esattamente come nel primo e nell’odierno Top Gun.
Esattamente come Hollywood, come l’azione pura, come «questo film l’abbiamo fatto per voi», come l’ironia e l’auto parodia, come lo spettacolo sincero e ruffiano al contempo, come il romanticismo che strappa sorrisi, come la regola degli ossimori e dei paradossi.
Come la fiera delle vanità.
Sentieri Selvaggi toccava la fine della frontiera.
Top Gun Maverick tocca il limite di un presente dal futuro incerto che, purtroppo, ci comunica che il tempo è passato ma le epoche non sono così differenti (Highway to the Danger Zone…).
Eppure la cornice sul deserto resta salda. I sentieri sono sempre selvaggi.
Hollywood è viva, reazionari, come il presente, diverso e uguale a 36 anni fa; forse a cento anni fa.
“Il miglior spettacolo in città”.
Questo basta.