CESARE RIPA E LA NARRAZIONE PER IMMAGINI
Nacque a Perugia attorno al 1555. Forse “Cesare Ripa” non era il suo nome di nascita, ebbe forse buoni studi classici, quello che è certo è che già in giovane età era a Roma, dove fu uomo di corte di diversi cardinali, sodale di eruditi e scienziati, membro di qualche ordine cavalleresco e di qualche accademia artistica.
Cesare Ripa ebbe un’idea: il patrimonio di immagini tramite il quale gli esseri umani rappresentano valori, sentimenti, concetti, merita di essere salvaguardato e tramandato.
Il tardo latino repertorium ci parla di lista, catalogo, registro. Ripa concepisce un archivio dove reperire, ritrovare immagini. Siamo alle origini della stagione barocca. Sono gli anni in cui Cartesio si forza di affermare la superiorità della matematica come linguaggio che ignora il corpo umano e la natura.
Cartesio cerca forme perfette costruite per via logica, prive di storia e di emozioni; il barocco sonda invece le profondità della natura e dell’animo umano. Cartesio – e Leibniz nella sua scia – cercano la verità proponendo linguaggi che impongono di eliminare dai discorsi ogni espressione involuta e oscura, il barocco sonda l’oscurità, dà valore ai dettagli, coltiva l’immaginario.
Rappresentare tramite simboli il pensiero: è ciò che gli esseri umani hanno appreso a fare tramite quella straordinaria invenzione che è la scrittura. Qui sta l’originalità di Ripa: cerca, verso il termine del 1500, una scrittura per immagini. Cartesio e Leibniz preparano il terreno sul quale crescerà la comunità tecnico-scientifica: esperti che parlano tra loro in virtù di un linguaggio esclusivo. Cesare Ripa raccoglie invece immagini che parlano ad ogni essere umano.
Siccome la cultura digitale nella quale viviamo immersi è l’esito finale dell’uso dei linguaggi logico-formali proposti da Cartesio e Leibniz, l’uso del differente linguaggio proposto da Cesare Ripa ci permette di attingere a una lettura critica.
Le immagini proposte da Ripa – simboli di diversa provenienza, colta e popolare, classica e tradizionale, «libro delle Figure universali da me messo insieme, e causate da molti antichi e appropriati scrittori» – parlano a noi umani di ciò che Cartesio e Leibniz e tutti i loro modernissimi eredi non sanno, o non vogliono vedere.
Così, seguendo Ripa, potremo osservare la scena digitale alla luce di uno sguardo che affonda nel passato e che si proietta nel futuro.
ICONOLOGIA, O SEMIOTICA DELLE ARTI VISIVE
Esce nel 1593 la prima edizione della Iconologia, Overo descrittione dell’imagini universali cavate dall’antichità et da altri luoghi. E Ripa aggiunge al titolo: Opera non meno utile, che necessaria a poeti, pittori, et scultori per rappresentare le virtù, vitii, affetti, et passioni humane.
Lo scopo si precisa nel sottotitolo delle edizioni successive. 1602: Opera utilissima et necessaria a gli Historici, et Poeti, et a desiderosi d’intendere l’occulta sapienza de gli antichi. 1603: Opera non meno utile che necessaria a Poeti, Pittori, Scultori et altri, per rappresentare le Virtù, Vitii, Affetti, et Passioni humane. 1611: Fatica necessaria ad Oratori, Predicatori, Poeti, Formatori d’Emblemi et d’Imprese, Scultori, Pittori, Dissegnatori, Rappresentatori, Architetti et Divisatori d’Apparati; Per figurare con i suoi proprii simboli tutto quello, che può cadere in pensiero humano.
Lo scopo si evolve via via: dall’iniziale intento di tramandare la sapienza degli antichi al ben più ambizioso tentativo di figurare con i suoi proprii simboli ciò che può cadere in pensiero humano.
Ripa non ha ambizioni da pensatore. Piuttosto, da archivista, da collezionista. Ma tocca nodi essenziali della filosofia dell’arte figurativa e visiva. Già nella prima edizione, 1593, apre il Proemio rivolto ai lettori con l’affermazione di una precisa intenzione: raccogliere «imagini fatte per significare una diversa cosa da quella che si vede con l’occhio». Il vedere, in effetti, è andare oltre l’apparenza. L’affermazione di Ripa richiama domande di importanza capitale: cosa vuol mostrare l’artista proponendo una immagine? E cosa l’immagine finisce per significare per il fruitore, al di là delle intenzioni dell’autore o del critico?
Ma l’interesse dell’affermazione di Ripa ha valore anche più generale: la semiotica si fonda su un concetto: il segno è qualcosa che sta al posto di qualcos’altro.
Discorrendo di questo significare una cosa diversa da ciò che si vede, Ripa usa, nel corso della sua opera, diverse espressioni, semanticamente vicine, ma ognuna tesa a sottolineare un aspetto. Vale la pena di soffermarsi sui termini.
Simbolo. Greco syn-ballo: syn, ‘insieme’, ballo, ‘getto’. Getto insieme, unisco. Materiali messi insieme appaiono come forma cui attribuisco un significato. Il senso si evolve dal “gettare le cose insieme” a “confrontare”, a “segno usato per determinare se qualcosa è autentico”. E quindi, “segno esteriore” di qualcosa, “qualcosa che sta per qualcos’altro”. Il simbolo è così figura rappresentativa di una entità astratta, ad esempio: bontà, bellezza, coraggio.
Figura. Da una radice indeuropea che sta per ‘formare’, ‘costruire’, il latino figura ci parla di ‘configurazione’, ‘struttura’, ‘disegno’, ‘sagoma’.
Metafora. Greco meta–pherein: meta, ‘oltre’, pherein: ‘portare’. Portare oltre, trasportare, trasporre, sostituire, esprimere con una immagine ciò che non può essere altrimenti detto.
Allegoria. Agoreuein è in greco parlare apertamente, parlare in assemblea. Allos- ‘di altro’ agoreuein è parlare d’altro. È linguaggio figurato, descrizione di una cosa sotto l’immagine di un’altra. Se la metafora è necessaria per dire ciò che sarebbe altrimenti indicibile, l’allegoria comporta un passaggio ulteriore: la scelta di dire senza dire, l’uso dell’immagine per velare.
Immagine. In origine sta il verbo latino imitari: imitare, rappresentare, ritrarre, riprodurre, esprimere. Sostituire una cosa con un’altra simile, supplire, surrogare.
Icona. Il greco eikón significa ‘immagine’, e ‘figura’, ‘similitudine’, ‘sembianza’, ‘ritratto in uno specchio’. Al senso generale si aggiunge un significato più specifico: ‘immagine sacra’. Non solo in senso generico: è immagine sacra, ma l’effigie di santo dipinta su tavola, tipica manifestazione dell’arte bizantina. Di qui, eikonóstasis (eikón e stasis, dal verbo histánai, ‘collocare’): nelle chiese bizantine e russe, il tramezzo – ornato da icone – che divide i celebranti dai fedeli. Al fedele, al quale non è dato di vedere l’invisibile – il mistero della celebrazione – è data perlomeno da vedere una ‘immagine’. È così pienamente affermato il valore metaforico dell’icona.
E così Ripa conia l’espressione iconologia. Rendere visibile l’invisibile attraverso immagini.
ALFABETI E IMMAGINI
Va marcata una differenza. Lo scrittore è costretto a narrare attraverso una stretta disciplina. Non può come altri artisti scegliersi la tecnica, è obbligato a una tecnica specifica. L’ars grammatica è innanzitutto questo: l’arte dello scrivere le lettere dell’alfabeto, e quindi è l’arte dello scrivere secondo regole che si fondano sull’uso dell’alfabeto. Cartesio e Leibniz vanno oltre lungo la stessa strada: cercano segni ancora più precisi, inequivocabili, esatti, delle lettere dell’alfabeto. Segni discreti, lettere, connettori, ognuno degli elementi del rigoroso sistema ha un senso diverso univoco.
L’artista visuale lavora le immagini con una ben diversa libertà. Lo scopo stesso dell’alfabeto non può non far riflettere l’artista visuale. Le arti visuali si propongono di mostrare immagini; mentre al contrario l’alfabeto si propone come modo per escludere l’immagine.
Sono ovviamente noti i vantaggi degli alfabeti. Con pochi semplici simboli, le lettere è possibile esprimere concetti astratti così come descrivere ogni cosa, ogni stato del mondo. Ma se su un piano gli alfabeti danno, su un altro tolgono.
Basta ricordare un diverso sistema di notazione, non alfabetico: il cinese.
La scrittura cinese ci mostra l’efficacia di un sistema di scrittura fondato sulla giustapposizione di simboli che creano non già frasi ma gruppi di immagini significanti. Resta così aperto al lettore attento tutto un mondo di simboli. Si può apprezzare la flessibilità delle immagini, la corona delle associazioni, tutto ciò che gravita intorno al punto centrale di un concetto di rappresentazioni complementari o opposte.
Riforme dell’ultimo secolo non hanno tolto al cinese le sue caratteristiche distintive. Immagini ancestrali che restano presenti, qui ed ora. Nei segni c’è il cielo, l’essere umano, il tetto della casa; l’idea di ragione si spiega rimandando alle venature della giada.
Quelle tracce visive che il cinese offre ancora agli occhi umani, sono invece spazzate via dagli alfabeti.
Anche le parole della lingua occidentale possono essere intese come montaggio di immagini. Ma le immagini possono essere riportate alla luce solo attraverso quello scavo archeologico che è lo studio dell’etimo. Basta ricordare i verbi latini che ci raccontano il senso del ‘pensare’. Capere, da cui capire: afferrare la preda. Intelligere: scegliere tra le frasche raccolte. Putare: potare la pianta. Pensare: pesare con una bilancia. Con iactare, congetturare: ‘gettare insieme’, gettare i dadi.
La mente umana lavora per immagini, ma è costretta a dimenticarsene, e a lavorare per alfabeti. Proprio negli anni in cui Cartesio perseguiva la strada sempre più lontana dalle immagini, che porta a sostituire alla narrazione il calcolo, fino alla computazione digitale, si diffondeva l’opera di Ripa: un salutare ritorno alla cultura visiva, iconica.
Eppure la prima e la seconda edizione dell’Iconologia ci propongono un paradosso. Nella prima edizione, 1593, descrive 699 icone. Ripa si propone di riportare alla luce immagini nella mente del lettore, ma lo fa limitandosi ad usare segni alfabetici. Parla di immagini senza usare immagini. Il controllo sociale che l’alfabeto permette di esercitare arriva fin qui.
Si nota la forzatura, in un certo qual modo la sua assurdità. Le parole di Ripa chiamano immagini. Fanno pensare alla mancanza di immagini. L’opera appare incompleta, provvisoria.
Questo diventa chiaro con la terza edizione, 1603. Le icone descritte sono ora 1085. Ma finalmente al puro testo si aggiunge un apparato illustrativo di xilografie, più di 400 immagini, che la tradizione attribuisce al Cavalier d’Arpino.
Solo così l’opera appare completa, equilibrata. Le descrizione fatte di segni alfabetici acquistano senso perché accompagnate da immagini. L’iconologia acquista così il suo pieno significato: la preminenza delle immagini salta agli occhi. Ogni successiva edizione dell’opera è illustrata. E la relazione, nell’equilibrio complessivo del testo, appare rovesciata: le parole scritte tramite alfabeto, prima era esclusiva presenza, appaiono ora corredo, spiegazione dell’icona disegnata.
Cesare Ripa non vuole imporre un proprio sigillo, si fa invece erede di una tradizione. Lui in prima persona, o l’editore dell’opera – presto diffusa in ogni lingua europea – chiama a partecipare al recupero della tradizione illustratori di volta in volta diversi.
ABUSO
L’Iconologia, come Ripa voleva, si rivela utilissimo strumento di lavoro per poeti, e soprattutto per cultori di arti figurative. Basta ricordare Johannes Vermeer.
Due opere in particolare sono esplicitamente debitrici delle icone perpetuate da Ripa. L’Allegoria della Pittura e l’Allegoria della Fede.
Nell’Allegoria della Pittura (circa 1666-1668) ritrae l’artista – probabilmente lui stesso – al lavoro nel suo studio. Ritrae una fanciulla. Che è anche Clio, personaggio della mitologia greca, musa della storia e della poesia. Vermeer aveva letto l’edizione dell’Iconologia tradotta in olandese nel 1644 – l’opera è forse lo scartafaccio aperto sul tavolo, guardato dagli occhi bassi della giovane modella. Come si legge nell’Iconologia: «Con la destra mano tiene una tromba, & con la sinistra un volume, & in capo una ghirlanda».
Nell’Allegoria della Fede (circa 1670-1672), osserviamo, seguendo Ripa, che la Fede è «Donna, vestita di bianco, che si tenga la destra mano sopra il petto, & con la sinistra terrà un Calice, & attentamente lo guardi».
Vermeer non rinuncia certo alla propria ispirazione, alle scelte compositive originali, alla propria unicità, ma allo stesso tempo si affida al messaggio implicito nei simboli che Ripa raccoglie e perpetua. I simboli rimandano a una storia, a una cultura visiva, a una comune consuetudine che artista e fruitore condividono: la Fede è vestita di bianco; Clio ha nella mano destra lo strumento musicale e nella sinistra il libro. Le icone costituiscono un linguaggio efficace – che permette di dire senza esplicitare, senza ostentare. Ed anche: le icone dicono qualcos’altro, qualcosa di più, oltre ciò che viene ostentato, esplicitamente mostrato.
Ma l’arte poi è andare oltre. Ricordiamo il senso della catacresi, figura retorica che prende nome da un verbo greco che significa abusare. Andare oltre l’uso comune, non limitarsi al consueto.
Vermeer usa a suo modo la lezione di Ripa. Le icone di Ripa sono qui perché possiamo usarle a nostro modo. Così ora possiamo raccontare una storia.
La storia dell’essere umano nell’Era Digitale. L’essere umano di fronte alla computazione, all’automazione, all’algoritmo che sostituisce il pensiero umano; l’essere umano che non si arrende ad essere inteso come macchina, e confrontato a una macchina.
TRE ICONE
Ripa propone alla nostra attenzione centinaia e centinaia di icone: dalle 699 dell’edizione 1593, sono salite a 1309 nell’edizione del 1625. Ma ne bastano tre, già presenti nella prima edizione. Giustapposte, collocate l’una accanto all’altra, e osservate in sequenza, ci narrano una storia profondamente radicata nella nostra memoria. Storia espressa attraverso immagini che hanno la potenza del mito. Mythos: narrazione, leggenda; saggio racconto che spande chiarezza sul presente e sul futuro, senza, in apparenza, dire nulla di preciso. Storia per immagini. Storia che però – condizionati da persuasione occulta e bombardati di notifiche – rischiamo di non ricordare più. Riprendiamo le descrizioni di Ripa dalla prima edizione, 1593. Il disegno delle icone si evolve di edizione in edizione: mostriamo quindi le icone dell’edizione 1625.
Del resto proprio in quegli anni – tra il 1622 e il 1629 – Cartesio scrive le sue Regulae ad directionem ingenii, “regole utili e chiare per la direzione della mente e la ricerca della verità”. Lì propone la Mathesis Universalis, la matematica come lingua pura, esente da ogni vizio di falsità o incertezza. La via di Cartesio è subito seguita da Leibniz: la sua characteristica universalis è un linguaggio universale capace di descrivere i concetti. Seguace esemplare è nella seconda metà del 1800 Frege. L’umanità dispone di “un patrimonio comune di pensieri che trasmette di generazione in generazione”. Ma il puro pensiero è ‘sporcato’ se espresso tramite il linguaggio ordinario e i comuni alfabeti. Serve quindi un Begriffsschrift, un linguaggio per ‘scrivere le idee’ attraverso notazioni logico-formali: segni inequivocabili. Turing e i computer scientist suoi seguaci si discostano ben poco da questo approccio.
Non è l’unica via per lasciar traccia del pensiero umano, e per produrre nuovo pensiero. Ripa –e a ben vedere: l’intera storia delle arti visive – ci propongono l’alternativa: accettare l’apparente imprecisione dell’immagine. Narrare per immagini. Seguiamo questa via.
Matematica
«Donna, di mezza eta, vestita di velo bianco, & trasparente, co’ l’ali alla testa; le treccie siano distese giù per le spalle co’ un Compasso nella destra mano mostri di misurare una Tavola segnata di alcune figure, & numeri, & sostentata da un fanciullo, ai quale ella mostri di parlare insegnandogli; con l’altra mano terrà una Palla grande, figurata per la Terra, co’l disegno delle Zone, & Circoli celesti; & nel lembo della veste sia un fregio intessuto di figure Matematiche; siano i piedi ignudi sopra una Base.
Il vestimento trasparente, dimostra, che ella sia di aperte, & chiare dimostrationi; nel che avanza facilmente le altre scienze.
L’ali alla testa, insegnano, che ella con l’ingegno s’inalza à volo alla contemplatione delle cose astratte. (…).
Il Compasso, è l’istromento proprio, & proportionato di questa professione, & mostra, che ella di tutte le cose dà la proportione, la regola, & la misura».
Intelligenza
«Donna, vestita d’oro, che nella destra mano tenga una Sfera, & con la sinistra una Serpe; sarà inghirlandata di fiori.
Intelligenza dimandiamo noi quella unione, che fa la mente nostra co’ la cosa intesa da lei; & si veste d’oro, perche vuole essere lucida, chiara, risplendente, non triviale, ma nobile. (…) Co’ la Sfera, & con la Serpe, dimostra, che, per intender le cose alte, & sublimi bisogna prima andar per terra, come fa il Serpe, & nell’intender nostro andare co’ principij delle cose terrene, che sono meno perfette delle celesti però si fa nella man sinistra il Serpe, & nella destra, che è più nobile, la Sfera».
Sapienza
«Giovane, in una notte oscura, vestita di color Turchino; nella destra mano tiene una Lampada piena d’olio accesa, & nella sinistra un Libro.
Si dipinge Giovane, perche hà dominio sopra le Stelle, che non la invecchiano, ne le tolgono l’intelligenza de’ secreti di Dio, i quali sono vivi, & veri eternamente.
La Lampada accesa, è il lume dell’intelletto. (…) Solo avviene per nostro particolar mancamento, che venga spesso in gran parte offuscato, & ricoperto da vizij, che sono le tenebre, le quali, soprabondando l’anima, & occupando la vista del lume, fanno estinguere la Sapienza, & introducono in suo luogo l’ignoranza, & i cattivi pensieri”.
UN COMMENTO
La sequenza appare all’occhio evidente. E forse le parole sono di troppo: basta guardare le immagini.
Matematica
Galileo osservava la natura – il complesso ambiente di cui l’essere umano fa parte – e ne approfondiva via via la conoscenza tramite esperimenti. Verbo latino experiri: l’idea è originaria è ‘io provo’. Osservo con i miei occhi. Maturo così via via esperienza. Per questo devo costruirmi di volta in volta strumenti diversi. Osservando qualcosa di nuovo devo trovare nuove parole per esprimere la meraviglia, e per spiegare la novità.
Cartesio apre una strada diversa, e Lebniz la perfeziona. Una strada lungo la quale siamo da quattrocento anni incamminati senza più ormai vederne i limiti. L’Era Digitale è la tappa di questo cammino che oggi stiamo vivendo.
L’esperto non è più, come era ai tempi di Galileo, chi diviene tale in virtù di esperienza, di esperimenti, di studio della natura. L’esperto è chi detiene un linguaggio, una chiave di lettura, data a priori. La Matematica è la lingua perfetta. Il calcolo – sostengono Leibniz e Turing – dovrà sostituire ogni altra forma di narrazione. Seguendo Cartesio e Leibniz, scienziati e tecnici sviluppano linguaggi esclusivi, di tipo matematico, intesi come unico possibile avvicinamento alla verità. Ciò che quel linguaggio non riesce a dire, è considerato irrilevante, rumore da scartare.
Si allarga via via la distanza tra esperti e altri essere umani, i cui tradizionali linguaggi – parole con la loro storia, immagini evocative – al cospetto dei simboli matematici sono giudicati poveri.
L’esperto sta sul suo piedistallo, non tocca il vile terreno. Di fronte a lui, in posizione reverente, l’essere umano ridotto a un putto, a un infante.
Scompare la pluralità delle descrizioni, delle narrazioni. Vale solo la narrazione dell’esperto. Perché solo l’esperto detiene le chiavi del linguaggio. I segni sono, e devono restare, incomprensibili all’essere umano prostrato ai piedi dell’esperto.
L’icona della Matematica proposta da Cesare Ripa ci ammonisce: l’esperto non vive nella natura, vive in un mondo di oggetti logici, codificati, osservabili solo tramite i suoi strumenti, descrivibili solo tramite il suo linguaggio specialistico.
La differenza tra naturale e artificiale è annullata. Perché il naturale è ridotto ad artificiale: descritto come se fosse artificiale, trasformato via via in artificiale, sostituito via via dall’artificiale.
Vedo una collina, ma scelgo di vedere solo un cono o una piramide. Il mistero implicito nella natura, la sua rigogliosa complessità: tutto questo è totalmente rimosso.
Intelligenza
Il senso dell’intelligere, concetto definito da esseri umani per descrivere un proprio modo di agire e di pensare, è ben descritto dal senso implicito nella parola. Due verbi latini. Legere: raccogliere. Inter-legere, scegliere tra ciò che si è raccolto. Raccolgo da terra frasche, scelgo le migliori tra di loro per un immediato scopo.
Il Matematico, nell’icona dell’Intelligenza, è costretto a scendere dal suo piedistallo. Ha sempre simbolicamente in mano la sfera che è la terra, la natura. Ma ora, nell’osservarla, è immerso lui stesso nella natura. I suoi piedi non sono poggiati su un piedistallo, ma sulla nuda terra. La scena non è quella che il Matematico sceglie di vedere; gli elementi presenti accanto all’essere umano non sono oggetti geometrici, perfettamente calcolabili. L’albero, elemento della complessa natura di cui l’uomo stesso fa parte, radicato in terra, emergente dalla terra, con il suo tronco e le sue foglie, va accettato e guardato per quello che è, storto o contorto, diverso da ogni altro albero. Posso descriverlo solo osservandolo. Maturando esperienza di quell’albero. Della scena fa parte anche il serpente – simbolo di mistero e di pericolo.
La scena nella quale viviamo è questa, il linguaggio della Matematica non è che uno dei linguaggi di cui l’essere umano dispone. Gli alberi e i serpenti per fortuna esistono e accompagnano noi esseri umani. La nostra educazione consiste nell’essere sempre più umani, consapevolmente vicini all’albero e al serpente.
L’intelligenza – il cercare e il raccogliere, il vagliare pericoli e opportunità, lo sperimentare e il narrare il risultato della sperimentazione – può essere vista come sintesi profonda e ampia dell’essere umano. L’intelligenza umana ha senso nel quadro della natura, e della cultura: continua interazione con la natura. Questo ci narra l’icona di Cesare Ripa.
Eppure dobbiamo osservare come la Matematica pretenda di imporsi: si vuol fare intendere che l’umana intelligenza possa e debba essere corretta, reinterpretata, ridefinita, alla luce della Matematica e del primato del calcolo. Si vuol fare intendere che l’Intelligenza sia figlia della Matematica, estranea alla natura. Avendo perso del tutto contatto con le immagini che parlano a noi esseri umani, per ignoranza o per arroganza, parliamo di Intelligenza Artificiale.
Sapienza
Infine la Sapienza. Qui l’essere umano non tiene nelle sue mani la sfera della Terra. Qui, definitivamente, l’essere umano è immerso nella natura, alla quale appartiene, e nella notte della propria ignoranza. Non solo è nudo, come nell’icona della Matematica, l’infante inginocchiato, è nudo ogni essere umano di fronte al mistero che la matematica stessa, la scienza in genere, non sa né leggere né descrivere. Al posto della esatta descrizione, sta il riconoscimento della propria ignoranza. A poco serve illudersi di controllare e di vedere acutamente in questo buio. È saggio dire che viviamo immersi nelle tenebre.
L’icona della Sapienza ci ricorda ciò che comunque abbiamo: la fiaccola che fa luce nelle tenebre. Fiaccola che è in fondo la nostra personale coscienza, il lume del nostro personale sguardo. E il libro, simbolo di ciò che abbiamo appreso, ma simbolo anche del libro della natura, che come diceva Galileo dobbiamo imparare a leggere. Libro che possiamo leggere: i segni tramite i quali è scritto non sono esclusivo patrimonio di esperti, ogni essere umano può leggerli.
Sapienza. O Saggezza. O Sapere. In realtà si tratta di un unico concetto. L’essere umano – ogni essere umano – matura esperienza e costruisce conoscenza. I sensi sono per l’essere umano i mezzi tramite i quali conoscere. Il latino sapor, sapore, cogliere il sapore può essere inteso come sintesi del processo di maturazione di esperienza e consolidamento di conoscenze. Dal cogliere discendono la sapienza, la saggezza, il sapere. Aiuta a illuminare ancor meglio la scena un’altra radice linguistica, da cui il latino vedere. Da questa radice il tedesco Wissen, conoscenza, scienza, e l’inglese wisdom, saggezza.
Cesare Ripa ci ricorda che il cielo è stellato. Le stelle sono guida e compagne dell’essere umano da tempi immemori: è l’aspetto più misterioso forse nella natura, stelle lontanissime e vicinissime nel loro apparire ai nostri occhi. Verbo considerare: stare con le stelle, farsi guidare dalle stelle. Verbo desiderare: essere privi delle stelle, non vederle al momento, ma considerarle comunque esistenti come guida e compagnia del viandante. Verbo contemplare: il tempio prima di essere una porzione di terra, una zona sacra sulla terra, è una porzione di cielo: è quella porzione di cielo che stiamo osservando ora.
UN CAMMINO
Tre icone: poste in sequenza ci propongono lo scarto, il passaggio, o il ritorno. Ci narrano un percorso – solo in apparenza a ritroso. Dal nuovo Super Uomo celebrato dalla cultura digitale – il tecnologo ebbro dei propri successi che edifica Infosfere e Metaversi – all’essere umano che consapevole dei propri limiti sogna e sonda l’ignoto.
C’è un verbo che ci offre una visione sintetica di questo cammino. Un verbo che ci parla al contempo dell’essere umano, delle arti visive e delle immagini che narrano. Osservare.
Dalla radice indeuropea swer derivano il sanscrito varutá, ‘protettore’; il greco horán, ‘vedere’; così come il latino observare: ob, ‘verso’ servare. Servare: salvare, preservare, conservare, mantenere intatto, custodire. Guardare e di salvaguardare.
L’antica tradizione che Cesare Ripa tramanda per noi, e che ci è di guida nel guardare il presente e nel prefigurare e costruire il futuro, può riassumersi nell’invito a osservare.
L’osservare termina nel considerare e nel contemplare: un percorso di educazione e di autoeducazione porta a passare dal vedere coni e sfere e figure geometriche al tornare a vedere la natura intorno a sé, fino ad alzare lo sguardo verso il cielo. Troviamo nella terza icona il senso della calma che l’essere umano, liberatosi della paura, attinge quando sente la sintonia con la volta stellata. Così la conoscenza dell’essere umano diventa vasta e incommensurabile come quel cielo.
Quando si aggiunge un nuovo significato, siamo ormai ai giorni nostri. Anzi, per la precisione, siamo negli anni Settanta, al Laboratorio della Xerox a Palo Alto, in California. Si sta studiando il modo di rendere accessibile a ognuno l’uso del computer. Come evitare che l’utente sia obbligato a digitare sulla tastiera i comandi, usando gli astrusi linguaggi che la macchina è in grado di comprendere? Appunto, facendo ricorso alle icone, una serie di small graphic images che appaiono sullo schermo a rappresentare le diverse parti della macchina e le diverse scelte possibili.
Come nascondeva al fedele bizantino il mistero dell’altare, l’icona nasconde a noi il misterioso funzionamento della macchina. Cosa c’è dietro al simbolo del cestino. Cosa accade quando impartiamo un comando?