Il 9 ottobre del 2023 ricorreva il sessantesimo anniversario del disastro del Vajont. Con l’occasione, i social network si sono popolati di contributi: documentari, retrospettive, filmati di visite alla diga. Ho seguito i contenuti con intensa partecipazione. Ero coinvolto, non solo per interesse intellettuale o perché sollecitato dalla circostanza della commemorazione, ma perché quella vicenda non mi era nuova. Da bambino, nonostante non fossi ancora nato quando accadde la tragedia, percepivo un’intima connessione con essa. Ricordo mio zio che raccontava di un amico perduto nella disgrazia. Mi sembra ancora di vedere il fratello di mio padre, seduto alla nostra tavola, narrare, con gli occhi lucidi di lacrime, di una montagna che era franata in un lago artificiale. «La diga, incredibilmente, ha retto – diceva –, ma l’onda enorme, di dimensioni pressoché inimmaginabili, ha spazzato via tutto quanto il paese e i suoi abitanti».
Oggi, a distanza di anni, mi stupisco, osservando le mie reazioni. Mi meraviglio di quanto sia difficile per me comprendere – profondamente, intimamente, non solo a livello cognitivo –, l’entità di un accadimento storico attraverso i numeri. In Ucraina stanno morendo centinaia di migliaia di persone, tra civili e soldati. Nell’attuale conflitto tra Israeliani e Palestinesi, stanno perdendo la vita migliaia di bambini, donne e uomini. Di ciò, avverto solo l’eco della mia coscienza che prova il rimorso per un’umanità che non è ancora capace di differenziarsi dalla visione che Vico aveva dei nostri antenati, quando li definiva «stupidi, insensati ed orribili bestioni». Nel caso del Vajont, al contrario, è sufficiente un fragile filo di seta, per mettermi in relazione con quell’avvenimento, per avvincermi in un sentimento di compassione, che m’ha interrogato – in un certo senso – ancor prima di venire al mondo.
Per questa ragione mi accosto a quei fatti non passando per la narrazione, la disamina dei dati, la cronologia degli eventi – non sarebbe utile, né sarei in grado, di fare meglio di altri che hanno già fornito resoconti dettagliati di quanto successe –, ma scegliendo il taglio prospettico dell’immagine, raccogliendo ciò che posso dal web, inseguendo le tracce lasciate da chi ha vissuto quei momenti, cercando di fissarli sulla pellicola fotografica.
Una foto cattura subito la mia attenzione. Due figure femminili spiccano su un ‘terreno vago’ di macerie. Cercano, assorte. Una delle due, accosciata, apre un libro o un quaderno. Carte da gioco sparse qua e là, una coperta, altri oggetti d’uso quotidiano rappresentano reperti preziosi per queste due amorevoli archeologhe d’una civiltà scomparsa appena da un giorno. Dietro di loro, sullo sfondo, vagano altre figure, grigie e nere. Fanno immaginare anime che s’attardano, in un ultimo addio alla loro terra, alle loro dimore, ai loro cari.
Qui, vedo una cava. Ne ho proprio una davanti a casa – di proporzioni ridotte rispetto a questa, ritratta nella foto – e posso assicurare che l’aspetto è identico. Oltre alla dimensione, c’è solo un’altra differenza tra i due luoghi. Nella mia piccola cava prealpina si estraeva calcare, per farne cemento.
Il campanile di Pirago emerge come uno stelo di filodendro a cui la tempesta ha strappato le foglie e ha infranto il suo vaso, l’ἐκκλησία (ekklēsìa) che nutriva le sue radici.
Immagini della diga. Sono facce della stessa medaglia, con aspetti opposti. Verso valle, s’erge una facciata torreggiante, severa, vertiginosa. Un uomo, con le mani sui fianchi, osserva la parete di roccia dal fondo della gola. Sebbene non sia lontano dall’obiettivo, appare minuscolo a confronto del gigante di calcestruzzo, che rievoca certi edifici dall’imponenza inarrivabile, tipici delle architetture Sci-Fi. Verso monte, la struttura ha una forma più dolce, morbida. Sembra una pancia. È come il guscio di una nave capovolta, progettata per resistere, ma che si è dovuta arrendere alla forza del mare.
Allo spettatore, dopo la catastrofe, si offre un panorama estraneo. Rammenta certe vecchie calcografie inglesi, incisioni su lastra di metallo delle scogliere di Dover. Una luce tagliente scheggia ombre e rilievi, in una tavolozza di bianco, nero e progressioni di grigio.
La diga riposa al centro, come un arco teso, una curva bianca, geometrica, esatta. Marca il punto di massima tensione tra l’ambizione dell’essere umano e la necessità della natura.
La frana è un magma solidificato. Il movimento, ormai solo testimoniato dalle circonvoluzioni impresse nel fango, racconta una dinamica, congelata nell’atto di travolgere il paesaggio intorno.
Ritrovo due fotografie che non mostro integralmente. Mi trattiene una sensazione interiore che collego alla sacralità del soggetto ritratto, all’intimità non spiegabile di una realtà che, per qualcuno, non è solo uno scatto, ma è fonte e incarnazione d’amore, icona di ricordi, origine di gesti unici e irripetibili – fatalmente perduti –, senso di un intero mondo fisico e spirituale in cui non mi sento autorizzato ad accedere.
Gli sguardi dei soccorritori, rivolti verso il basso, alludono ai sentimenti che potevano albergare nei loro cuori. Uno, ancorato alla terraferma, facendo forza con il piede, tira una fune. Nel volto intravvedo altro, oltre lo sforzo. Così come nella postura del soccorritore più a destra dell’altra foto non si coglie attività, solo l’immobile dolore e la contemplazione di una ‘Pietà’, in carne e ossa, che ci si figura giacere ai suoi piedi.
Tra le fotografie c’è anche quella dell’ingegner Biadene che venne condannato, insieme all’Ingegner Francesco Sensidoni, per inondazione aggravata. Nell’immagine, un uomo d’età avanzata sembra girarsi verso di me, come se tentasse di incrociare il mio sguardo. Non mi cimento in una lettura di quell’espressione, tuttavia posso riferire il modo in cui la percepisco. Ricambiando immaginativamente il contatto, divento un oggetto visibile a lui, così come lui lo è per me e mi sento, inevitabilmente, interpellato. Fissando questa foto, mi pare di sentire, martellante nella testa, la sua domanda: «Tu, al mio posto, cosa avresti fatto?». È un interrogativo che mette l’accento sulla mia alterità, ma anche sulla mia somiglianza con l’altro. Mi chiama al riconoscimento della distanza, ma anche alla responsabilità di un’assunzione di posizione etica, in ogni azione quotidiana, in ogni scelta, perché sappia oltrepassare la riduzione di complessità del ruolo, per abbracciare una nuova disposizione ontica, autenticamente e pienamente umana.
NOTE
1Modifiche delle immagini a cura di Mauro De Martini