Ottant’anni di Mostra d’arte cinematografica sono decisamente un bel traguardo per quello che rimane il festival più longevo e secondo solo a Cannes per prestigio e importanza. L’edizione appena conclusa ha sofferto solo in parte della mancanza delle star hollywoodiane, dovuta al noto sciopero che da mesi paralizza l’attività cinematografica oltre oceano, facendo anzi segnare un aumento dei biglietti venduti e delle presenze degli accreditati; a riprova che la componente “glamour” alla fine non è così decisiva come spesso i media vogliono farci credere. Uno degli effetti della penuria di prodotti americani, è stata la presenza di ben sei film italiani in concorso, un numero esorbitante di cui dovremmo essere orgogliosi ma non accompagnato, almeno a giudizio di chi scrive, da un altrettanto adeguato livello qualitativo. Per una volta, i premi assegnati hanno rispettato in buona parte i pronostici della vigilia, fatto non scontato visti i precedenti. Infatti, le due ultime edizioni, 2021 e 2022, avevano visto trionfare opere non certo tra le favorite; ci riferiamo a La scelta di Anne (L’Événement, A. Diwan, 2021) e a Tutta la bellezza e il dolore (All the Beauty and the Bloodshed, L. Poitras, 2022), che, pur essendo dei buoni film, erano sembrati più che altro frutto di un compromesso tra le varie sensibilità dei giurati.
Del resto, i palmarès veneziani sono spesso stati fonte di grandi sorprese (non meno – va detto – di quelli sulla croisette). Tra gli esempi più clamorosi, vanno senz’altro ricordati la vittoria del venezuelano Ti guardo (Desde allà, L. Vigas) nel 2015, a cui la giuria presieduta dal messicano Alfonso Cuaron assegnò il Leone d’oro tra lo sconcerto di tutta (o quasi) la critica nostrana e internazionale. Addirittura l’inviata di Repubblica, prima che il verdetto fosse emesso, si chiedeva indignata come mai un simile pastrocchio cinematografico potesse essere stato ammesso al concorso. Ma il caso forse più eclatante risale al 1994 quando la giuria presieduta da David Lynch premiava con il Leone d’oro Vive l’amour del maestro taiwanese Tsai Ming-liang, ex aequo con Milčo Mančevski per il suo Prima della pioggia. Trovandomi alla proiezione per la stampa del film asiatico, posso testimoniare come la pellicola fu accolta da risate di scherno, commenti derisori ad alta voce e da un lento e inesorabile abbandono della sala da parte dei critici accreditati. Mai più ci si poteva aspettare che il film vincesse addirittura il primo premio.
Venendo all’oggi, i ventitre film in concorso hanno mantenuto un discreto livello qualitativo, con molti ottimi prodotti e senza quei film inguardabili che venivano a volte inseriti solo per ragioni di politica culturale. Il Leone d’oro, annunciatissimo, è andato a Povere creature! (Poor things) di Yorgos Lanthimos, regista ormai acclamato che scoprimmo sempre a Venezia nel 2011 con un curioso film, Alps, in cui quattro attori recitano, a pagamento, la parte di persone appena scomparse per aiutare i parenti a elaborarne il lutto. Da allora, Lanthimos si è confermato come un autore unico, coraggioso e sempre sorprendente, soprattutto per la capacità di inventarsi trame singolari e di trasformarle in sceneggiature pluripremiate che, a dispetto della stravaganza degli assunti di partenza (a parte il già citato Alps, valga per tutti l’inverosimile trama di The Lobster…), riescono non solo a essere coerenti, ma a dar vita a narrazioni coinvolgenti e ricche di colpi di scena. Il film vincitore di questa edizione è tratto da un romanzo dello scrittore scozzese Alasdair Gray ed è forse la definitiva consacrazione del regista greco, ancora una volta capace di restare miracolosamente in bilico tra il fantastico e il realistico, tra la commedia e l’horror. Capostipite di quella che è stata chiamata “greek new wave”, in questo suo ultimo film Lanthimos sguazza, con malcelato compiacimento e una padronanza stilistica ormai riconosciuta, nelle perturbanti e fredde distopie che lo contraddistinguono fin dagli inizi, trovando in Emma Stone, già sua complice nel precedente La favorita (The Favourite, 2018), l’interprete ideale.
Il premio della giuria è andato a Il male non esiste (Aku Wa Sonzai Shinai) del giapponese Ryūsuke Hamaguchi, autore ormai affermato e capace di uscire da ogni rassegna cinematografica a cui prende parte (Berlino, Cannes, Oscar…) con almeno un premio. Il suo film, sul piano formale, è una mirabile antitesi delle adrenaliniche produzioni occidentali, spesso ipercinetiche e inutilmente parossistiche nel loro tentativo di tenere lo spettatore inchiodato dagli effetti speciali e dai virtuosismi del montaggio. Hamaguchi stavolta ci porta, con andatura solenne, nel cuore del Giappone rurale contemporaneo dove l’equilibrio tra uomo e natura rischia di essere rovinato dalla vorace presenza di un’imprenditoria che vuole sfruttare la moda della vita “green” costruendo un glamping, sorta di campeggio per ricchi il cui orrore si profila già dal nome. Sulla strada di questa sventurata avventura commerciale, c’è per fortuna il vecchio Takumi, custode burbero e inflessibile della sua terra, e argine alla cupidigia degli uomini venuti dalla città. Un finale sconvolgente, che rimarrà nella mente degli spettatori, rimette a posto le cose.
Due premi per certi versi paralleli sono andati al nostro Io capitano di Matteo Garrone e a Green Border di Agnieszka Holland. Entrambi i film si occupano del fenomeno della migrazione, una migrazione che solo la disumana politica degli attuali governanti europei, con la complicità di una stampa asservita e pigra, insiste nel definire “clandestina” se non addirittura “illegale”. A parte il tema comune, i due film non potrebbero essere più diversi. La veterana Holland, come sempre solida nella drammaturgia, utilizza il bianco e nero per catapultarci nel mezzo del confine centro europeo, tra Polonia e Bielorussia, in cui si muovono i disperati che hanno scelto la via di terra anziché le perigliose procelle marine, per arrivare a mettere i piedi nella loro terra promessa. Lo stile è nobilmente documentaristico, una scelta obbligata anche dal tipo di produzione indipendente e dall’ostilità che il film ha incontrato sulla sua strada, prima e dopo la realizzazione. Paragonato dal governo di Varsavia nientemeno che ai film di propaganda del Terzo Reich, e accusato di mettere in cattiva luce i “polacchi brava gente”, Green Border appartiene invece alla lunga tradizione del cinema di denuncia e ne è a tutti gli effetti un degnissimo rappresentante; a riprova che il cinema può e deve essere uno strumento di sensibilizzazione e di presa di coscienza di fronte a tragedie che la cronaca quotidiana rischia di rendere astratte e lontane nel tempo e nello spazio.
Anche Garrone prende la stessa strada ma da un altro versante. Convinto che solo costruendo una storia intorno a quelli che per noi sono solo anonimi sventurati il cui sbarco sulle nostre coste provoca, nel migliore dei casi, pietà e, nel peggiore, preoccupazione perché costituirebbero una minaccia al nostro stile di vita (per non parlare dei deliri di chi teme la sostituzione etnica…), il regista romano ci accompagna nel viaggio di due ragazzi senegalesi, a partire dalla loro decisione di lasciare la patria per venire in Europa, fino all’arrivo; la parte finale, quella, cioè, che noi vediamo sulle nostre tv ogni giorno o quasi, viene quindi lasciata in disparte per concentrare la narrazione sul lungo e tormentato percorso dei due che, lasciata la loro città natale, attraversano l’Africa affrontando il deserto, i terribili centri di detenzione in Libia e la traversata in mare. Garrone, nel descrivere la loro odissea, rimane fedele al suo cinema, lontano da intenti moralistici o da ricatti emotivi, e va alla ricerca di un’autenticità che non è solo consegnata alle immagini ma fa appello alla nostra capacità di lasciarci coinvolgere senza cadere nelle trappole del sentimentalismo.
Per continuare nella disanima del cinema di casa nostra e della sua ingombrante presenza al Lido, poco interesse hanno mediamente suscitato Il comandante di De Angelis, La scoperta dell’alba del comunque talentuoso Saverio Costanzo, e il simil-polar “de noantri” Adagio di Stefano Sollima. Un po’ meglio si può dire di Giorgio Diritti e del suo Lubo, la classica storia di emarginazione e riscatto che non può mai mancare in un festival che si rispetti. Invece su Enea di Pietro Castellitto si è scatenato un duello all’italiana, con la giovane critica romano-centrica (con l’esclusione de Il manifesto) a gridare al capolavoro, alla scoperta di un nuovo geniale cineasta, per giunta italiano, al “cult movie”, e invocando premi e riconoscimenti (che peraltro non sono arrivati), mentre invece i più attempati cronisti del nord (Mereghetti, Fornara e la redazione di Cineforum quasi al completo) a distruggere il film dando del presuntuoso al giovane regista e contestandogli l’inconsistenza della trama, la sconclusionatezza del racconto, e l’adesione acritica a un’estetica che, non sapendo come altro definirla, viene chiama “postmoderna” ma che in realtà è solo figlia di Youtube o di TikTok. Potrebbe sembrare, e in parte lo è, una querelle regionalistica ma alla base ci sono anche profonde ragioni estetiche che non possono essere legate solo a interessi di campanile e che vanno anche al di là dei confini nazionali. E se non è detto che si scateni una nuova guerra di religione, come ai tempi di Visconti vs. Fellini, e pur consci che le polemiche sono il sale della critica, è anche vero che una distanza così marcata tra le posizioni in campo ci fa temere che il cinema, almeno come lo abbiamo conosciuto noi, uomini del ‘900, sia destinato a scomparire definitivamente. Il botteghino, rivitalizzato dagli inaspettati fasti di Barbienheimer, darà comunque una risposta, almeno in termini commerciali, mentre sulle questioni filosofico-estetiche aspettiamo di sentire qualche voce interessante, che ci spieghi finalmente cosa fare di un arnese ormai vecchio di 125 anni a cui siamo però ancora tutti molto affezionati.