Venus & Mercury è una mostra di Viviane Sassen che si è tenuta ad Amsterdam presso la Huis Marseille nel 2020. I lavori esibiti provengono da un progetto precedente, realizzato all’interno della Reggia di Versailles, poi presentato al Grand Trianon nel 2019 con il nome Visible/Invisible.
La prima cosa a colpire è il titolo. Non si tratta della scontata associazione Venere/Marte, né quella popolare Venere/Cupido, e neppure una relazione filiale con Giove o coniugale con Vulcano. Venere è la dea della bellezza, della seduzione, dell’eros. Esiodo, nella Teogonia, racconta che Gaia, la Terra, detestava Urano, il Cielo, che giaceva perennemente disteso su di lei e la fecondava continuamente, costringendo i figli a rimanere intrappolati nel suo corpo. Per questo forgiò un falcetto affilato e lo affidò al suo ultimo nato, Crono, il Tempo. Egli non temeva l’ira del padre e, quando Urano si avvicinò al corpo terreste di Gaia, evirò il padre e lanciò il suo membro in mare. Attorno al membro del dio si andò addensando la spuma del mare e da questa, mescolata allo sperma, nacque Afrodite.
Mercurio, dal canto suo, impone il patrocinio su tutto ciò che ha relazione con la fluidità e il movimento: commercio, viaggi, ladri, comunicazione, atletica, velocità, destrezza, farmacia, trasformazioni di ogni tipo. Cosa lega, dunque, la dea della bellezza e del desiderio al truffaldino messaggero degli dei? L’effetto spiazzante di questa coppia costituisce il primo indizio di una sorta di percorso enigmistico ed iniziatico che Viviane Sassen ci riserva, e che in un certo senso ci impone.
Viviane Sassen tace, è reticente, gioca a suggerire più che a rivelare, lasciando che le sue creazioni, chiamarle ancora fotografie potrebbe essere fuorviante, facciano il resto. E queste, anche in una professionista di grande esperienza nella moda, stupiscono per l’uso sapiente del colore e delle luci; meravigliano per la cura dei dettagli, dimostrando di aver appreso appieno la lezione dei maestri fiamminghi suoi conterranei. Quando poi l’occhio finalmente comincia a districarsi tra forme e colori, si ritrova davanti a una serie incoerente di particolari di statue, di collage, di interventi di colore su carta, stoffa, pietra, legno.
In questa incoerenza si snoda il percorso narrativo della Sassen, che cerca di rifuggire quanto può da un contesto preciso e perciò limitante, per dar vita e visibile fisicità a ciò che un attimo prima era elemento mutilo e muto. Lo sguardo si sofferma sulle immagini e non può fare a meno di chiedersi che cosa siano e quali legami abbiano tra loro. Un altro elemento che complica la comprensione di queste immagini è l’intreccio di tempi diversi che convivono nella medesima fotografia. La dimensione della contemporaneità irrompe attraverso la presenza di alcuni adolescenti, che si immergono nell’ambiente in cui sono ritratti.
Nella dimensione storica della Reggia, tra il XVII e XVIII secolo, ci sono giardini, dettagli architettonici e di interni, codici, lettere e oggetti. In quella del mito, senza tempo, riproduzioni di statue della classicità, torsi, dettagli anatomici.
Tutto sembra convivere in perfetta armonia. Guardare è cercare di collegare fra loro vari indizi, come in una sorta di giallo visivo.
La Sassen, che governa il gioco, ci fornisce indizi attraverso le didascalie delle foto. Per esempio la serie chiamata Syph, in cui si vedono delle protesi nasali, ci suggerisce che l’argomento è la sifilide, il “mal napolitano” secondo i francesi, il “mal francese” per gli italiani, mentre per gli inglesi, forse più correttamente, il “mal spagnolo”. La sifilide, nei diversi gradi di sviluppo, prevede il collasso del naso, così come quello dell’osso ioide, gravi danni agli arti e al sistema nervoso, generando turbe psichiche e paralisi. Questi oggetti così insoliti, tra reperti anatomici da cold case e reliquie laiche, emanano un fascino ambiguo, sono ciò che resta della malattia e del malato, traccia indelebile della sopravvivenza e dell’ambiguità insita in ogni immagine, che è insieme vita e morte.
Tra i nodi del discorso che Viviane Sassen ci propone c’è la forza del corpo maschile capace di ridursi e ridurre all’impotenza, come nella serie dei Pancrastinae, cioè il pancrazio, o alla morte, come nel Gladiateur mourant. Il membro virile ha una valenza assolutamente violenta, non è un caso che una protuberanza marmorea venga chiamata The attempt. La sua mancanza rassicura, come nella serie Ovio/Nest, che mostra dettagli del pube di statue virili come un nido vuoto; l’evirazione viene celebrata addirittura come The dream. Le macchie di colore che la Sassen sparge sulle fotografie (Pancrastinae, Penicilline, Rift, Siph) non coprono, ma fanno da evidenziatore, sembrano evocare una cura, una carezza che la fotografa rivolge a quei corpi malati.
Per giustificare il titolo manca ancora un passaggio, ce lo fornisce quello che viene indicato come l’elemento centrale della mostra, un video di venti minuti. Le fotografie fluiscono ininterrottamente, mentre la voce di Tilda Swinton legge alcuni testi di Marjolijn van Heemstra. Mentre ci si lascia coinvolgere dal racconto e dalla musica, alcune parole attirano la nostra attenzione: “una notte con Venere, tutta la vita con Mercurio”. La frase, nel corso dei secoli, è diventata proverbiale, a significare che la sifilide contratta in una sola notte d’amore si pagava con una vita intera di cure e con l’unica terapia considerata valida fino alle soglie del Novecento, il mercurio.
Il dio dai sandali alati in questo caso è eponimo del cosiddetto argento vivo. Il titolo adesso appare chiaro: si può avere Venere solo a patto di accettare il rischio di una patologia grave, permanente, invalidante. Possedere Venere si può pagare con la perdita di sé, ovvero dietro il piacere si cela la morte. E a Mercurio infine non resta che accompagnare le anime dei morti nel regno degli inferi. Nell’alternanza di suoni, silenzi e parole recitate, un altro motto sottolinea il senso del video: “Passion is poison”. La passione è di per sé un veleno di cui si nutre chi guarda a Venere come corpo da godere. Il mercurio come pharmakon arriva troppo tardi, il corpo di chi desidera è già corrotto dalla voluttà, il piacere intenso connesso alla volontà che precede l’atto. Del resto, come la storia della sifilide insegna, oltre che l’etimologia, il pharmakon è anche un veleno.
Il video è costruito come un centro da cui si biforcano, in un continuo susseguirsi, due immagini. E il punto preciso dell’origine di ogni immagine non può che ricordare proprio L’origine du monde di Courbet. L’effetto ottico è quello di una vagina dalla quale incessantemente fuoriescono immagini che crescono e scompaiono, come succede nella vera vita. Ciò che c’è di falso è che questa porta non prevede un’entrata. Venere funziona come una vagina dentata, impedisce al maschio di penetrarvi, e in fondo gli salva la vita risparmiandogli le sofferenze di Mercurio. Venere non è forse nata da un atto di violenza, da un pene tranciato e gettato in mare? Le numerose statue evirate sono un monito per chi brama di possedere Venere. Tornare all’origine è tornare nell’indistinto, l’antro buio dove si deve essere disposti a perdere se stessi. Le figure femminili sono immuni da questo rischio, poiché incarnano l’idea della generazione e dell’origine.
Guardare il video è correre un rischio: perdersi nelle immagini, nel loro ipnotico scaturire dall’origine. La Sassen accentua questa idea con la riproduzione in loop e non permettendo alcuna interruzione: ancora una volta la fotografa interviene con decisione nel processo di lettura e di interpretazione del suo lavoro. Chi guarda deve correre il “rischio” di vederlo tutto, sino alla fine. Il tempo d’esecuzione e quello di contemplazione sono lenti, e negli intenti dell’artista sembrano tendere alla simultaneità. Come se l’immagine nascesse direttamente sotto lo sguardo dello spettatore. La Sassen vuole creare nello spettatore le stesse condizioni di indeterminatezza che stanno alla base del suo modo di guardare e della sua percezione.
Per la fotografa ogni immagine è un pretesto per creare una realtà a sé stante, astratta, proprio nel senso letterale dell’astrarre: un movimento di estrazione, di allontanamento, che rende ambiguo l’iniziale luogo di provenienza delle immagini, che si collocano fuori dal tempo, in una temporalità ambigua come i soggetti raffigurati, una sorta di ipnotica “eternità” dentro la quale ogni coordinata temporale appare effimera.
“Cerco sempre di evitare troppi contesti. Isolo queste cose per renderle più astratte. Le mie immagini sono come una sala degli specchi; ti riflettono quello che hai già dentro”, afferma la fotografa. […]. Viviane Sassen sembra voler smentire il gioco stesso dell’immagine, un gioco di specchi e riflessi in cui l’unica regola certa è l’esistenza di un rimando, ovvero l’immagine è sempre immagine-di.
Dunque se la prima suggestione è profondamente radicata nel mondo classico, l’ambientazione crea un nuovo cortocircuito: le statue di Venus & Mercury si trovano a Versailles. Alcune fra le storie a cui la fotografa si ispira sono quelle delle prostitute che frequentavano i giardini del palazzo, quella di Louise Marie-Thérèse, la figlia meticcia e presumibilmente illegittima della regina di Francia, o del dipinto di Élisabeth Louise Vigée Le Brun di Maria Antonietta in un abito di mussola, all’epoca considerato provocante. A questa stratificazione di tempi si aggiunge un nuovo elemento. La Sassen invita un gruppo di adolescenti a farsi fotografare nelle sale di Versailles. Il presente irrompe con un altro cortocircuito a far rivivere l’antica e decadente opulenza di Versailles. “Era una ragazza così bella – aveva queste trecce grigie, indossava vestiti alla moda, ha studiato psicologia a Parigi. Così l’ho invitata a farsi fotografare a Versailles e a portare i suoi amici. Si sono scatenati facendo il loro servizio fotografico mentre io li fotografavo – sui loro telefoni, facendo selfie, possedendo il posto e loro stessi in esso”, racconta. “Sarebbe fantastico, non è vero, se potessero intrufolarsi alla festa dei loro predecessori?” dice la Sassen.
Venere prende nuovamente corpo attraverso quello delle ragazze ritratte a Versailles. La fotografia, come l’arte, sa fondere insieme ciò che è arcaico con la sua propria contemporaneità. Il corpo è un tema che attraversa in modo trasversale tutta l’opera della Sassen.
L’influenza del padre che faceva il medico in Africa, dove lei ha vissuto, è stata molto importante. “Mio padre è morto quando avevo 22 anni. Ha posto fine alla sua stessa vita. […] Era un medico, e il corpo umano come forma di espressione – ma anche contenente molte ambiguità e paradossi – che in qualche modo è sempre presente per me. In Venere e Mercurio, si incontra di nuovo; l’erotico, ovvero il corpo come scultura, ma anche il decadimento. Paura della malattia, paura della morte”, racconta la Sassen.
Se invece si pensa ad Umbra, un progetto del 2014 sull’ombra, esposto in una retrospettiva dedicata alla Sassen tenutasi ad Amburgo nel 2017, si può forse leggervi un modo per dialogare con l’idea della morte. “Questo libro è dedicato a mio padre, la cui ombra ha viaggiato più veloce di lui”, si legge nelle prime pagine del catalogo. Dedicare un libro all’ombra del padre, e poi scegliere di celebrare la potenza generatrice dello sguardo femminile in Venus & Mercury, significa cercare di esplorare la complessità e i misteri dello sguardo.
Se si potesse scegliere un’immagine per esprimere questa idea, sarebbe certamente Occo: una donna dal volto invisibile che abbraccia una sfinge. I due corpi sembrano confondersi, non sono per nulla in conflitto. Si è ben lontani dall’iconografia classica in cui Edipo le fa da antagonista. In questa foto sembra si voglia suggerire come l’essenza stessa dello sguardo non possa essere svelata sino in fondo. Il mistero di Venere è il medesimo della sfinge. Il corpo femminile, che ricorda la Venere del titolo, si fonde con la statua della sfinge perché non c’è bisogno di svelare alcun mistero. Venere è l’enigma. Ma a differenza della sfinge, il suo enigma è indecifrabile. Si cede alla bellezza e all’amore e in quel mistero ci si può solo perdere. Lo sguardo che cerca di forzare quel mistero, di possederlo, e dunque in particolare quello maschile, è destinato a soccombere. Forse la Sassen vuole suggerire che non è possibile possedere sino in fondo nemmeno le immagini. Il mistero della loro nascita, dell’origine e della scintilla che dà vita alle sue fotografie, tende ad essere inafferrabile.
Viviane Sassen (Amsterdam, 1972) ha studiato Fashion Design a Utrecht (HKU) e fotografia al Dutch Art Institute di Atelier Arnhem. Presente nel 2013 alla 55° Biennale di Venezia, ha vinto numerosi premi e riconoscimenti tra cui l’Infinity Award dell’ICP di New York nel 2011e il premio nazionale olandese Prix de Rome nel 2007. Ha intrapreso una carriera internazionale nella fotografia di moda e parallelamente conduce la sua ricerca personale.
Il sito dell’artista: Viviane Sassen